Viaggio a Casnigo: “Elena e Fabio in Municipio, il baghet, il Santuario della Santissima Trinità e quello della Madonna d’Erbia. I custodi Eva e Ilario, la Corsa dol Rémèt e…”

450

Lucio Toninelli

Cosa c’entriamo noi con la Val Gandino e con Casnigo? Per “noi” intendo noi Scalvini delle “Terre Alte”… Va di moda questa etichetta di Highlanders, per dire “chi chè stà ’n simå ai brich”, come noi. Li per li non mi viene in mente alcuna  risposta alla domanda. Neanche l’ottimo caffè corretto del Plazza Caffè di Casnigo, mi viene in aiuto. Buio pesto.  Ma è normale: a dire il vero, in tre quarti di secolo non ero mai stato – prima d’ora – a Casnigo. Eppure mi ronza in testa qualche moscerino mnemonico. Lo sento che ronza,  ma non lo cavo dal buco. 

Avrà a che fare con gli antichi romani e con le miniere? No: noi ferro, loro lignite; loro nel secolo XIX, noi già prima di Cristo; i romani non sapevano che farsene di quella roba torbosa puzzolente; forse tentarono di coltivare le cicerchie e i ceci. La piana del Serio era molto fertile… No, non ci siamo. Allora con i guelfi e i ghibellini? In quei tempi bui, noi tifavamo più per il Papa, i Casnighesi per l’Imperatore. Ma ce le siamo date tutti a prescindere – e alla cieca – fino a invocare S. Bernardino per rinsavirci. No, no, non è neanche questo il bandolo. Forse le pecore e la lana? È possibile che affittassero i nostri alpeggi alti d’estate e che si trafficasse di lana e di pecore, ma non ricordo fatti storici di rilievo come la guerra con Borno per il Negrino. No. Che siano le partite di calcio, allora? Magari fra la Gandinese e CimaVerde-Vilminore, negli anni della spensierata giovinezza? Io comunque ero un brocco e non mi interessavo di calcio.

D’improvviso, mentre sorseggio il secondo caffè, mi viene un lampo, una scintilla. Mi dò una manata in fronte… “ma certo… – dico – Landrieux, il generale francese Landrieux!  Che Odino lo fulmini, parlandone da morto! Lui e i suoi francesi…”. I clienti del bar si girano, scuotono la testa mettendo l’indice alla tempia. “ Ma sì, cercavo la traccia della nostra contaminazione intervalliva, capite!”. Un ginseng, per favore, tazza grande.

Siamo a fine ‘700… A scriverne è proprio un uomo del ‘700: Giambattista Grassi di Schilpario. “Arrivano i Francesi!”, titola. “Superate le Alpi nel 1796, i francesi s’impossessarono del Piemonte e del Ducato di Milano: e, simulando pace ed amicizia con Venezia, occupano Bergamo e Brescia”.  Porca l’oca!  “Ma i prodi valseriani corrono alle armi contro i rivoluzionari. Atterrato in Clusone l’albero della libertà dei rivoltosi, mossero verso Bergamo gridando “S. Marco, S. Marco!”; ed unitisi con quelli di Val Gandino, si azzuffano coi rivoluzionari, e li respingono”. Ma fu vittoria breve, perché… “…sopraggiunto il generale francese Landrieux con milizie e artiglieria, i nostri furono costretti a ritirarsi, ed a pagare una grossa taglia per salvare i loro paesi dal saccheggio. Anche gli Scalvini spiegarono al vento la loro bandiera, ed armati di rugginosi moschetti, marciarono tronfi a Clusone; ma qui, saputo della disfatta, tornarono a casa con la coda fra le gambe”.  Dicendosi: “Beh, dai, poteva andare peggio”.

Una memoria tira l’altra, mi viene in mente che c’è altro. Però… siamo nel ‘900, questa volta. Nel cuore del secolo XX quando fame, guerre, epidemie decimavano le valli e il contrabbando poteva salvare il pranzo e a volte perfino la cena. Con qualche rischio, si capisce.

SUL NUMERO IN EDICOLA DAL 17 NOVEMBRE

pubblicità