Mauro Corona: “E’ stato un genocidio dei poveri”

    540

    Mauro Corona e Giorgio Fornoni. Un incontro sul luogo del… delitto, quel Vajont che il 9 ottobre del1963 diventò l’inferno, un inferno che ingoiò più di 2000 persone, sono passati 50 anni, un anniversario di quelli che lasciano il segno, che forse un segno va lasciato per forza, per non dimenticare. Giorgio incontra Mauro a casa sua, per raccontarsi e raccontare quella maledetta frana caduta sul versante settentrionale del monte Toc, sul confne tra le province di Belluno (Veneto) e Udine (all’epoca dei fatti, ora Pordenone, quindi Friuli Venezia Giulia), staccatasi per l’innalzamento delle acque del lago artifciale a oltre quota 700 metri voluto dall’ente gestore per il collaudo dell’impianto che combinato a una situazione di abbondanti e sfavorevoli condizioni meteo e cioè forti precipitazioni, provocò il disastro. Erano le 22.39 del 9 ottobre del 1963 quando 270 milioni di metri cubi di roccia (un volume quasi triplo rispetto all’acqua contenuta nell’invaso) scivolarono alle velocità di 108 km/h, nel bacino artifciale sottostante (che conteneva circa 115 milioni di metri cubi di acqua al momento del disastro) creato dalla diga del Vajont provocando un’onda di piena che superò i 100 metri in altezza e che per un tratto risalì il versante opposto colpendo gli abitati lungo le sponde del lago nel Comune di Erto e Casso, scavalcò la diga riversandosi nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i suoi vicini. Ci furono 1917 vittime di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri Comuni. Giorgio Fornoni ha raccolto in un video le sensazioni e i volti di Mauro Corona e di chi quel disastro lo ha vissuto sulla propria pelle e Mauro Corona ha scritto in parte queste sensazioni in ‘Confessioni Ultime’, un lavoro a quattro mani fra due teste fuori dagli schemi. * * * di GIORGIO FORNONI Mauro Corona aveva 13 anni quando una gigantesca frana staccatasi dal Monte Toc piombò nel lago del Vaiont, sopra la diga da poco costruita, facendo tracimare l’acqua. Un’apocalisse di fango e detriti lambì i paesi di Erto e Casso per riversarsi poi nella valle dell’Adige, a monte dell’abitato di Longarone. I morti furono quasi 2000. Mauro e suo fratello furono mandati a studiare per tre anni nel Collegio dei Salesiani di Pordenone. Tornato a Erto, ormai spopolato, Mauro abbandona gli studi e lavora per sette anni nella cava di marmo del monte Buscada. Sono gli anni più duri ma anche formativi per il giovane che comincia a intagliare nel legno figure di camosci, scoiattoli, uccelli e madonnine. GLI STIVALI DI GOMMA La tragedia del Vaiont fu in larga misura una catastrofe annunciata. Lo rivelò molti anni dopo anche l’inchiesta giudiziaria. Erto e Casso non furono distrutti dall’alluvione, ma persero comunque la maggior parte della popolazione costretta all’abbandono. I danni furono immensi, cambiò tutto in quella valle, ma il disastro segnò in maniera ancora più indelebile l’anima di chi sopravvisse a quella lunga notte. “Ogni inverno – racconta Mauro – quando “La verità finalmente svelata ha generato il professionismo di superstiti: da lì è nata la professione ‘superstite’. Il Vajont non va usato per notorietà e per visibilità personale” “Ci sono stati due Vajont, quello dei morti e quello che ha fatto i morti morali, la disgregazione di usi, costumi, tradizioni, cultura. Una civiltà di artigiani sparita nel nulla. Questo è il secondo Vajont” » IL 9 OTTOBRE 1963 Vajont: mezzo se colo dal disastro facevo le elementari, prima del Vajont, una ditta di stivali di gomma – quelli da pescatore, a mezza gamba, che oggi costa due euro e non usa più nessuno, ma allora erano un patrimonio – mandava nelle scuole di Erto, ai poveri, un certo numero di stivali di gomma neri. Per me erano un dono, e ancora a 62 anni non ho digerito l’umiliazione di non averne ricevuto nemmeno un paio, dalla prima elementare alla settima, si faceva fino all’ottava classe all’epoca. Avevo solo scarpe di legno, e ogni anno quando iniziava l’inverno pensavo ‘Stavolta toccano a me’. E sceglievano i nomi, li decidevano il maestro o la maestra. Dalla prima alla settima classe, per sette anni, non ho mai avuto un paio di quei maledetti stivali marca Aquila. Gli insegnanti non si rendevano nemmeno conto del dolore che provavo. O forse non lo sapevano. Quest’anno toccheranno a me, speravo. Come mai nessuno di quei maestri, di quei messaggeri di cultura, si è accorto dell’indigenza di questo bambino e di suo fratello? Mio fratello una volta li ottenne, ma io avevo il piede più grande e non mi andavano altrimenti glieli prendevo. Ora ne potrei comprare a tonnellate, ma quell’umiliazione, quel dolore non me li toglie nessuno. I maestri conoscevano le condizioni della mia famiglia, sapevano che eravamo tre orfani con genitori viventi ma assenti, e allora datemi un paio di stivali e invece niente… Dopo arrivò il Vajont e ci regalarono scarpe, vestiti, di tutto”. IL CORPO È COME UNA MONTAGNA, LO DEVI LEGGERE Mauro è così, racconta l’anima di quel tempo, l’anima e il cuore che si mischiano e diventano un’atmosfera che chi legge respira: “Il corpo è come una montagna, lo devi leggere – continua Mauro – se io vedo un ghiaione sotto una parete capisco che la montagna mi sta dicendo: ‘Guarda che qui sono friabile’. La montagna mi presenta il suo libro aperto. Ma noi non allunghiamo più la mano verso gli scaffali di questa biblioteca che è la natura, per aprire i volumi che ha scritto. Allo stesso modo ci dimentichiamo il corpo, non leggiamo più quello che ogni giorno ci scrive. Se ho un’unghia nera vuol dire che ho preso un colpo e devo curarmi. Tutto nell’esistenza è scrittura, e noi dobbiamo essere attenti a leggere queste scritture che ci lascia la natura, questi archivi di ciò che è successo nei millenni. Alluvioni, terremoti, maremoti, valanghe. La natura ha scritto. Qui hanno tirato su un paese nuovo. Là, dal monte Certen, dove secoli fa scendeva una valanga enorme e andava a fnire nel Vajont. E quella opposta, dal monte Borgà, lo stesso fniva laggiù. Si baciavano, diceva la vecchia guida Gioacchino Filippin. Ora, chi ha detto che in quel posto lì, dove hanno costruito il paese nuovo, non torni la valanga? Chi l’ha detto? E invece gli uomini ci hanno costruito. Se nei secoli dei secoli nessuno aveva costruito nulla lì neanche un pollaio, un motivo c’era”. LA TV ITALIANA VIVE SOLO DI… GRAVIDANZA Mauro è così, certo che un motivo c’era, un motivo c’è sempre: “La tv italiana ormai vive di gravidanza. I telegiornali si premurano di annunciare che la tale attrice forse è gravida, l’altra ha partorito, una è in attesa e le fanno vedere la pancia. E anche adesso, né la tv pubblica, né quella privata hanno ricordato che 50 anni fa duemila persone entravano nel nulla per ambizioni, cinismo e interessi altrui. Mai una volta che i tg pubblici abbiamo ricordato il Vajont nella ricorrenza. Nessuno l’ha detto. Hanno cercato anche di contrattare il ‘messia’ che tra l’altro ammiro molto, che faceva due serate all’Arena di Verona. Il 9 ottobre 2012 Celentano faceva il suo spettacolo, ma non ha nemmeno accennato che lo stesso giorno, quasi cinquant’anni prima, mentre lui seguiva giustamente la sua strada, duemila persone venivano uccise cinicamente. Non l’ha detto. Memoria corta? Forse non lo ricordava. La tv nazionale non ha detto mai niente, se non qualche mezza parola i primi anni. Eppure questo è un genocidio di Stato, un genocidio del quale non si deve parlare. Però io devo sapere che la tal soubrette è incinta. Poverina! Forse s’è pure divertita. E lo so dai tg nazionali. Oramai i telegiornali vivono di gravidanze e di ricette gastronomiche. Il Vajont invece è materia delicata, da silenziare. Dopo l’orazione civile di Marco Paolini, che non mi piace neanche chiamarla così, il Vajont è balzato alla luce. La dobbiamo a Paolini questa verità venuta a galla. Ha fatto sapere all’Italia che c’è stato questo genocidio di poveri, come lo chiamò Tina Merlin, ma la verità finalmente svelata ha generato il professionismo di superstiti: da lì è nata la professione ‘superstite’. Ora sono quasi cinquant’anni, il Vajont non va dimenticato, ma nemmeno usato per notorietà e per visibilità personale. La memoria del Vajont va programmata, perché non si possono dimenticare quasi duemila morti uccisi da cinici farabutti”. PARLIAMO DI ACQUA Cosa si può fare per ricordare? “Si può fare questo, ad esempio: a Longarone, che è stata spazzata via dalla faccia del mondo, ogni anno si potrebbero organizzare tre giorni di dibattiti sulle tragedie, le catastrof, i maremoti, i terremoti, le guerre, anche le tragedie familiari. Si invitano psicologi, studiosi, esperti, geologici, premi Nobel , tre giorni di dibattiti. ‘Non servono a nulla’ dirà la gente. Può darsi, ma forse eviteranno altre tragedie come quella che buttarono sulla nostra gente. Oltre a fare il lifting alla cittadina e fermare una tappa del Giro d’Italia sulla diga del Vajont per commemorare i cinquant’anni di duemila morti – per carità, mi va benissimo ma mi sembra poco – serve un programma di memoria. La memoria del Vajont va sviluppata e tenuta viva in senso creativo e costruttivo. Bisognerebbe parlare di acqua, il tema dell’acqua, e chiamare fori di gente, esperti, tecnici, anche premi Nobel dicevo prima. Erto, la vecchia Erto che sta crollando, casa dopo casa: perché lo Stato non se lo prende questo paese? Ci sono i parenti, i fratelli con le case in comunione che non si dividono, intanto il paese sta crollando”. UN’UNIVERSITÀ DI GEOLOGIA Mauro è un fume in piena, e i fumi in piena tracimano anche di… idee: “Facciamo una legge. Cari signori, io Stato lo metto a posto questo paese, investo milioni di euro, lo sistemo dalla prima casa all’ultima, tutte quattro le vie, a spese mie, e faccio un’enorme università, un campus di geologia, scienze forestali, scienza naturali, botanica. Faccio una piccola distilleria di erbe medicinali. E lì, nel paese rinnovato, ci metto 600-700 studenti. Perché non lo facciamo? Il paese è protetto tra l’altro dalle Belle Arti, è patrimonio dell’Unesco, e sta crollando. Allora facciamo un’enorme università, affttiamo agli studenti, alle famiglie degli studenti, e in cinquant’anni o forse trenta lo Stato recupera l’investimento. C’è poi l’indotto, nasceranno osterie, pizzerie, negozi, ecco come si salva il paese. Quando lo Stato avrà recuperato l’investimento, le case ritorneranno ai padroni e loro, se sono ancora vivi, o i loro eredi, ricominceranno a fare le baruffe per dividersele. Questo è un progetto per la memoria del Vajont. Mi va bene anche il Giro d’Italia, ma tutto qui?”. IO LE CASE LE DAREI GRATIS PURCHÉ CI ABITI QUALCUNO Far ripartire la vita, in qualche modo bisogna farla ripartire: “Fino a trent’anni fa da queste parti si diceva: ‘La mia casa mai a un foresto’. Ma la casa preferisci che cada o vedere il camino che fuma? È ora di fnirla di parlare della razza. Non vorrei più sentire: ‘Eh, questo non è dei nostri…’. Neanche io sono dei nostri. Siamo anime, per cui la mia casa vecchia, dove c’è 1a memoria della mia infanzia, di mio papà, mia mamma, mio nonno, mia nonna, se non ci vado più, se la vedo crollare e ho la possibilità di farci abitare qualcun altro è una bellezza. Direi: ‘Guarda quel ragazzo lì, che vive dove sono cresciuto io’. Ti aiuto a vita perché stai accendendo la stufa lì dove stava morendo tutto, questa è la mentalità che dobbiamo promuovere. Alcuni non l’accettano, però adesso stanno cambiando. Io le case le darei gratis. Penso che ci sia un futuro per questo paese se lo prendono in mano i ragazzi, questi ertani giovani che hanno studiato, sono laureati in Ingegneria, Architettura o quello che volete. Però ci vogliono i fondi, la zona è bella, ci sono boschi, torrenti, bisognerebbe creare l’università nel paese vecchio. Abbiamo la frana più famosa del mondo. Anche per i botanici, abbiamo la fornitura sui prati della Palazza che è unica al mondo. C’è un’erba che si trova solo qui, l’Arenaria huteri solo qui esiste. Facciamolo questo grande centro studi, sistemiamo il paese vecchio. Invece che farla crollare è meglio che la mia casa la veda abitata da qualcuno. Ogni tanto passo di lì, la vedo che fuma, con il riscaldamento, messa a posto, i cessi, tutto quanto, vedo il camino che fuma e dico: ‘Ah! Ci abitavo io qui una volta, guarda che bello, c’è qualcuno!’. DUECENTOMILA ALL’ANNO PER LA DIGA “Arrivano qui duecentomila persone all’anno, a visitare la diga, e ci sono ancora due latrine di plastica, ecco il termometro di questa organizzazione, due latrine di plastica in tutto. C’è l’ufficio informazioni in una baracca sbilenca, andate a vedere. Nessuno ha mai pensato a fare una costruzione con un piccolo ristoro perché la gente ha bisogno non solo di raccogliersi in memoria, avrà bisogno anche di un caffè, credo. Anche così si fa la memoria, si perpetua la memoria, non, come diceva Borges, erigendo monumenti. Oppure, nell’attesa che venga rimessa a posto, a Erto Vecchia sarebbe da fare un percorso per le vie del paese, le quattro vie, San Rocco, la centrale, Sopra Fuoco e l’ultima. Come hanno fatto a Manosque, dov’è nato Jean Giono. Hanno riempito le vie di targhe con le frasi dei suoi libri. Ho scritto un libro su Erto, ‘I fantasmi di pietra’, un libro su questo paese che sta morendo, con un po’ di storia, una via ogni stagione. Perché non facciamo un percorso per i turisti che non sanno dove andare? Dalla piazza si parte con delle targhe che si susseguono, una chiama l’altra. Qui è successo questo, qui quest’altro, questa era la vecchia osteria tal dei tali, dove si vendevano vini a damigiane. Ora non c’è più niente, è già crollata. E allora creiamo un percorso a questi turisti che hanno letto il libro o lo leggeranno, gli fai fare le quattro vie, intanto capiscono, alla fine, si finisce al Gallo Cedrone, l’ex osteria Pilin, che è morto a Dachau. Così la gente arriva e s’imbatte in qualcosa, perché sennò si trova spaesata”. UNA CIVILTÀ SPARITA NEL NULLA Una processione di gente che viene a vedere, a cercare di capire: “Vengono alla diga, ormai milioni di turisti, e credono che la frana sia quella che vedono di fronte, invece ce l’hanno alle spalle, ce l’hanno dappertutto. La frana li circonda. Allora bisogna fare delle gigantografe su com’era prima e dopo. Perché oltre al danno c’è l’equivoco, l’errore di valutazione, di chi dice: ‘Ah, è quella la frana!’ ‘no, è mille volte tanto. Va indottrinato il turista. Guardate com’ era prima, sapete che qui dove avete i piedi andava giù la valle per 200 metri? Ci sono le foto, è impressionante. Dove c’è la palestra di roccia, vicino alla strada, lì andava giù di 200 metri. Questo il turista lo deve sapere, quanto meno per soddisfare quel sentimento naturale che è la curiosità di vedere cosa c’era prima. Ecco la memoria che dicevo bisogna imbalsamarla. Così si onorano i cinquant’anni del Vajont. Perché il Giro d’Italia ha le ruote e le ruote vanno via veloci: cosa resta all’indomani? Nulla. Sì, hanno onorato cinquant’anni di genocidio, va benissimo, facciamo arrivare una tappa, ma spero non fnisca tutto lì. Questo è il Vajont, l’abbandono, la distruzione di una civiltà. Ci sono stati due Vajont, quello dei morti e quello che ha fatto i morti morali, la disgregazione di usi, costumi, tradizioni, cultura. Una civiltà di artigiani sparita nel nulla. Questo è il secondo Vajont. Il lucro che hanno fatto sulla tragedia: per qualche tempo dei faccendieri senza scrupoli compravano le licenze dei vecchi artigiani per 500.000 delle vecchie lire, la licenza di fabbro, di falegname, di venditore ambulante, di fabbricatore di scarpetti. Anche mia madre la vendette. Ne11964, 500.000 lire sembravano un tesoro a queste persone che avevano perso tutto. Gente semplice, non stupida, che si fidava. Con la licenza questi faccendieri lazzaroni potevano chiedere i contributi a fondo perduto. Inventavano una fabbrica, facevano il perimetro e poi fuggivano in Svizzera con i soldi.. Il Vajont è anche questo. La distruzione di un popolo unito, pieno di iniziative, di cultura, di storia”. PAESI ANNIENTATI IN DUE MINUTI “Gli stupratori di grandi civiltà ci hanno messo qualche tempo ad annientarle, gli Inca, i Maya, gli Aztechi, quelle che volete. Qui in due minuti, il tempo di venir giù il Toc e noi non c’eravamo più. Hanno fatto due paesi, perché le forze vanno divise, perché un popolo unito è forte, allora hanno detto: bisogna dividerli, così togliamo loro forza. Quindi hanno fatto un paese a Belluno, chiamato Nuova Erto, un paese nella Bassa friulana, chiamato Vajont, e hanno sradicato la gente che non sapeva neanche dove fosse finita. Sofferenza; abbandono, malinconia, depressione. Perché non c’erano più le loro montagne, gli usi, i costumi, le tradizioni. Oggi quelli che sono nati dopo il Vajont hanno cinquant’anni, non vivono più della memoria, ma quelli che ci sono passati sono morti di malinconia perché l’obiettivo era dividerli, annientarli, e ce l’hanno fatta!”. SI NASCE A ERTO MA L’ERTANO NON C’È PIÙ “Ormai Erto non esiste più, noi nasciamo a Erto, ma l’ertano non esiste più, gli ertani erano uomini uniti, le case del paese vecchio erano legate come un grande rosario. Ci si passava una tazza di zucchero, la polenta, si facevano anche baruffe. La cucina era il fulcro dove decidevano la vita e la morte, lì nasceva la vita, o si spegneva. Non c’è più stato niente. Si nasce a Erto, ma non siamo più ertani. Ci hanno uccisi tutti. Uccisi due volte, i morti veri e i morti morali. Adesso, piano piano, con queste generazioni nuove che sono nate dopo, si sta perdendo questo dolore e, morti gli ultimi superstiti, a chi rimane il dolore del Vajont? Rimarrà un trafletto sui libri di storia. Forse. E nient’altro”. DUEMILA MORTI: MA CHI ERANO? Una memoria pesante quella del Vajont, una memoria che deve rimanere da monito: “Ai miei figli posso dire che c’è stato il Vajont, ma come fanno loro ad avere quel dolore? Lo registrano come una notizia e diranno: ‘Duemila morti, ma chi erano?’. Il Vajont finirà così. E allora, per salvare la memoria, bisogna proporre cose utili. Inutile fare monumenti, bisogna fare cose che stimolino chi verrà dopo a ricordare. E dobbiamo farlo noi perché la tv pubblica è oberata di notizie di soubrette incinte. Perché non facciamo una scuola di geologia a Longarone? Ci sarebbero un sacco di progetti, ma per farli ci vogliono i soldi. Invece che fare ponti a Messina bisogna fare le cose di cui c’è bisogno. Ma adesso forse ci chiudono anche la posta. Dove andiamo noi a spedire un pacco, a ritirarlo, dove andiamo, a chilometri da qui? Chiudono scuole, chiudono tutto. I nostri fgli per studiare partono la mattina d’inverno alle 6.30 con un pullman, vanno giù a Longarone e lì pigliano un treno per Belluno. Come arrivano la sera ‘sti ragazzi? Da Belluno tornano su col treno, pigliano di nuovo la corriera a Longarone e vengono a Erto, in gennaio, febbraio, dicembre. Come arrivano qua? Fanno bene a marinare. Diceva ] eran Giono che ‘il vero bisogno sta nelle piccole valli, dove ci si può chiamare da una costa all’altra’. E non credo che questo riguardi solo l’arco alpino, anche più giù, perché non faccio differenze tra Nord e Sud, sono fratelli miei, anche laggiù, punto e basta. Dobbiamo andare a Pordenone alla posta? Qui non c’è un frutta e verdura, non un’edicola, non c’è macelleria, non c’è niente, cosa vogliono? Che vengano qui a cercar voti, con il forcone li cacciamo via! Sapete cosa mi ha detto un politico ormai decaduto? Io parlavo di questo paese, della Valcellina, gli chiedevo di aiutarmi a dare un’impronta di sopravvivenza dignitosa a questo paese, e lui

    pubblicità