ALZANO – LA STORIA – La vita di Francesco Nembrini e l’assassinio di sua mamma, che aveva resistito ad uno stupro, come la Beata Morosini

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Spett. Redazione di Araberara

Vi racconto la storia di mio nonno Francesco Nembrini, nato ad Albino, prima muratore, poi soldato alpino al fronte e poi di nuovo muratore. Nacque nel 1882, anni di miseria, di fame e di fatiche per il popolo di manovali, contadini, operai con lavoro di dieci, dodici, quattordici ore giornaliere, senza cibo, senza vestiti, vita dura e pochi affetti.

Bambini che a sei anni erano già addetti a lavori faticosi con scarsità assoluta di cibo, di vestiario, “de estic”. Per i piedi non esistevano le scarpe, ma solo ciabatte, “le zobre”, o gli zoccoli, “i spei”, ereditati o ceduti da zii, nonni e conoscenti, cercando di utilizzarli il meno possibile per non consumarli. Nelle nostre valli ci si recava al lavoro, anche a chilometri di distanza, con gli zoccoli in mano e rimetterli poi in fabbrica durante il lavoro.

Il nonno, allora bambino, viveva con papà, mamma, un fratello e una sorella in comune di Albino, paese che anni più tardi avrebbe dato i natali alla beata Pierina Morosini, martire per la sua verginità. Il giorno della festa della Madonna della Gamba del 1894 mentre la loro mamma, mia bisnonna, Caterina Moioli, si recava ad attingere acqua alla sorgente in località “La Vasca”, luogo che io non sono ancora riuscito a localizzare, venne assassinata nel resistere alla violenza sessuale di due individui.

I tre bambini adolescenti rimasero senza mamma. Il papà, mio bisnonno, non resse al dolore, non riuscì a reagire e si diede all’alcol, l’anno dopo morì. Da quel poco di cui sono a conoscenza, la ragazzina Giovanna, quattordicenne, fu messa in orfanotrofio; i due fratelli più giovani Francesco e Pietro furono lasciati allo sbando e alla misericordia della gente. Non esisteva tutta quella abbondanza che abbiamo oggi in beni di consumo, servizi assistenziali, redditi per tutti.

I due fratellini vivevano in uno scantinato vicino al torrente Albina e quando c’era la piena il pavimento si copriva di acqua.

Per la polenta avevano un vecchio paiolo con un foro sul fondo e bollendo l’acqua bisognava che la farina indurisse prima che il fuoco bruciasse il tappo e l’acqua spegnesse il fuoco.

Non  c’erano vestiti e scarpe di marca, brioches ripiene, merendine, piumoni imbottiti, per i più fortunati c’era lardo e polenta. Sopravvissero grazie a lavori saltuari e alla carità della gente.

A questo punto le mie conoscenze si fermano. Riprendono quando il nonno si sposò con mia nonna Luigia Gelmi, originaria di Leffe, nata nel 1887, terza elementare, che insegnò l’essenziale per leggere e scrivere essendo rimasto semianalfabeta.

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