VIAGGIO NEL GUSTO /2 – I miracoli di San Marco da Pradella. Federico: “La cucina è una scienza. È lo chef a trasformarla in arte”

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Lucio Toninelli
È indispensabile dire due parole, su Pradella, prima di parlare di San Marco e dei suoi miracoli. 
Frazione di Schilpario, in Val di Scalve, Pradella ha circa 50 abitanti. Se la guardate dall’alto, capite il perché del suo nome: una piccola zona prativa, un minuscolo borgo immerso nei boschi resinosi. Una chiesa dedicata a San Marco. Una manciata di case aggrumate, le altre sparse. Un panorama irreale tanto è bello! E un Hotel-Ristorante che si chiama San Marco…

Il primo miracolo è che sia stato riaperto, da circa un anno, dopo la storica e trentennale gestione con la mitica Mea in cucina. Ora il prodigio lo ha fatto un giovanissimo chef scalvino: Federico Magri. E a fargli da spalla, un’altra giovanissima scalvina: Sara Capitanio (homen nomen: òcio perché Sara è una sorridente… Capitana di sala!).
Federico, anche se giovanissimo, ha alle spalle significative e diversificate esperienze ai fornelli in strutture di grande qualità e fama. È anche figlio d’arte – papà Giovanni ha dedicato la vita alla ristorazione e ora aiuta il figlio. Ma la cucina di Federico è la “sua” cucina. Federico è andato oltre il papà e ha voluto una struttura tutta sua da gestire: Ristorante e Hotel.
Nel mezzo di numerose chiusure, a valle della pandemia, Federico e Sara, hanno aperto! Bravi, e il successo non poteva mancare.
Volete sapere che cucina sia quella di Federico? Classica, nouvelle cuisine, tradizionale italiana, lombardo-bergamasca, fusion, internazionale? No, siete fuori strada. Serve un dizionario diverso, fuori dagli schemi. Federico dice: “La cucina è una scienza. È lo chef a trasformarla in arte”.

Ogni arte ha un suo dizionario e ogni artista ha il suo linguaggio. Potete anche usare aggettivi o avverbi eloquenti, se volete, ma consiglio di farlo davanti a un suo piatto, quando adagiate il boccone fra lingua e palato.
Con affetto dico anche che, oltre che figlio d’arte, Federico è anche nipote di nonna Minighinå che ho conosciuto e che ogni giorno che c’è sul calendario, faceva una polenta. Senza quella i figli non si sedevano neanche a tavola. Si scherza, ma è proprio così, e ne portava spesso una fetta ai miei genitori quando soggiornavano a Pianezza, nella porta accanto alla loro. Quindi so di cosa parlo. Fine degli amarcord sentimentali.

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