Il dindondan della chiesetta

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    Un rintocco strano, campane, ma all’interno di un appartamento di città hanno un sapore diverso dal solito. La mente ti collega ad un suono fastidioso più che melodioso, intorno a te case su case, catrame e cemento per dirla alla via Gluck… Che se le sentì lassù sul monte in una sera magari quasi di primavera, hanno un suono del tutto diverso. Intorno al mondo che si costruisce la tua fantasia, d’improvviso ti trovi nel reale, boschi, prati e malghe ti fanno giungere il suono della campanella, in un unico abbraccio che ti avvolge. Ci si arriva dopo una lunga camminata in quel posto, che nemmeno ci volevo andare, ma un passo tira l’altro e per fortuna, mi ci sono ritrovato, da questo sentiero a quello, accolto dal ritmico un po’ stonato suono di una campana che svetta sul piccolo campanile di una chiesetta sul monte, che è l’ora dell’Ave. Il sacrestano che poco prima aveva munto le sue tre vacche, la Nina, la Gigia e la Nana, che non sono le tre caravelle, rigovernato il fogliame sotto di loro a giaciglio, ora tira la cordicella a comporre il richiamo sonoro per pochi fedeli. Se non parlo del passato, non riesco a descrivere il presente, che così collego il suono cittadino che ora mi arriva stridulo, pari al pasto che mi accingo a consumare con gesti sempre uguali e noiosi come le campane della mia città, gli stessi di altre innumerevoli volte, senza sugo, senza sapore, vuote come il suono che mi arriva in testa infastidendomi, che fa rima con il ritmo di questo vivere. Il contrario di quello che in montagna ti esalta. Il vino che anche di scarso valore, non ha bisogno di essere accompagnato da finocchio, oltre i mille metri pare migliore, e forse non pare, diventa. Il formaggio è di pascolo magro e ti lascia in bocca l’essenza della fatica dell’animale che l’ha creato. La polenta di molto rimescolata per più di un’ora nel paiolo sul camino, porta con sé il sapore del faggio o del rubino che ardendo l’ha cotta dandole un indelebile gusto nostrano.

    E poi ci arrivi, a quella chiesetta, piccola, bianca di calce, bianca di luce che risalta nel verde ancor bruno dei pascoli attorno con ai bordi l’inizio del monte più duro, che costeggia i confini con una pineta che a breve si risveglierà sbadigliando colorata di verde più intenso: è da lì che devo passare per far ritorno alla mia casetta di montagna, poi ci vado, non ora. È appena terminato il richiamo sonoro del campanaro, e Santa Lucia patrona intitolata di quel grazioso luogo di culto lassù, sembra mi inviti, e vado. Per trovarci ciò che voglio, un lume acceso che vacilla al lato dell’altare proprio sotto l’effige della Santa. Dei foulard annodati sotto al mento di facce di donne stanche e rilassate in pace, che stringono tra le mani segnate dal tempo e fatiche, scoloriti e consumati Rosari che sgranano in litanie bisbigliate. Capelli bianchi in testa che di fresco sono stati acconciati con le dita per la bisogna, di uomini che si sono appena lavati viso e mani, in gilet nero e camicia di lana a quadri con pantaloni di fustagno, con al fianco il cappello riposto in reverenza. Che le prime timide audaci primule hanno appena fatto la loro comparsa e il gelo che ancora le punzecchia, dà ancora più tono ai camini del borgo che fumano vivaci a far vedere che la vita umile e orgogliosa in quel luogo perpetua. Finché poco dopo quell’uomo ci benedice e ci augura la buona sera, e bisogna prosegua perché sta imbrunendo. Tornare a valle è lo stesso che affrontare quel tratto nel bosco, che impervio mi accoglie con piccole insidie di neve e canaloni scavati dalle piogge, l’inverno che scema, per lo stesso motivo del suo esistere si è divertito a scomporre alcuni pezzi di sentiero che agilmente si superano, ed io arrivo in quel paese che ospita i momenti più sereni della mia vita. E ancora ho nel cuore quel suono di campana che mi ha fatto star bene con l’anima come se il resto del mondo non esistesse neppure.

    Non è la stessa cosa che sentire le campane in città dove il suono si mischia al frastuono, nemmeno il vino è buono uguale, quasi non volesse venir primavera dove la natura non è l’attore protagonista sul palcoscenico della vita, come non fosse primavera ascoltare le campane con l’orecchio cittadino, anziché quello fino del montanaro, sembra che il cuore batta perché deve, non che pulsi al ritmo del dindondan che soave arriva come fossero parole d’amore.

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