benedetta gente

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    «In rerum natura, – diceva don Ferrante, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera” (…) Fin che non faceva che dare addosso all’opinion del contagio, trovava per tutto orecchi attenti e ben disposti: perché non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi»(I Promessi Sposi). Don Ferrante, attribuendo il contagio alla congiunzione di Saturno con Giove, e prendendosela quindi con chi diceva “non toccate qui, non toccate là e sarete sicuri”, non prese precauzioni e morì di peste.

    Ora questa “epidemia” non sembra proprio dovuta a congiunzioni astrali, ma non sembra nemmeno così devastante, la maggior parte delle vittime aveva gravi malattie di suo, succedeva anche con le banali influenze del passato. Oggi non siamo più alla terrificante epidemia “spagnola” della fine della prima guerra mondiale, e nemmeno all’epidemia chiamata “asiatica” del 1957.

    Eppure la paura è degenerata in panico, favorita dagli stessi mass media e dagli errori dei politici che, nell’intento di informare e chiarire, hanno alimentato il sospetto che, se ne parlavano di continuo, il pericolo era grande e soprattutto, per mancanza di vaccino, incontrollato. E la gente ha reagito appunto in modo incontrollato. Alcuni esempi.

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    In un paese delle nostre valli c’è un insolito affollamento di “villeggianti”. Non turisti mordi e fuggi, ma villeggianti, come usava negli anni sessanta quando per i tre mesi delle vacanze estive i nonni tenevano i nipotini in montagna, con le visite dei fine settimana (ancora non si chiamavano weekend) dei legittimi genitori, impegnati al lavoro giù in città. Incuriositi, i ruspanti abitanti del paese hanno chiesto il perché, siamo fuori stagione, gente attempata e quindi improbabile siano qui per le settimane bianche. Qui siamo al sicuro del corona virus, hanno risposto. Fuga dalla città virulenta, come racconta Boccaccio nel suo Decamerone di quei dieci fiorentini (sette maschi e tre femmine) che vanno fuori città per sfuggire alla peste che falcidiava la popolazione di Firenze. E per dieci giorni (Decamerone significa appunto dieci giorni) per passare il tempo si raccontano storielle, alcune delle quali un po’ spinte, al punto che hanno poi dato modo di forgiare il termine “boccaccesche”. Anche durante la guerra si era verificato un fenomeno analogo, un turismo di rifugio, per la paura che bombardassero Milano.

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    Girano storielle anche adesso, altrimenti non si spiegherebbero fenomeni come quello dell’assalto agli scaffali dei supermercati per portarsi a casa casse di acqua minerale. Il problema è che non sappiamo più distinguere una favola da una cronaca, un romanzo da un libro di storia, ci dev’essere stato qualcuno che ha messo in giro la voce che il virus ce l’abbiano messo negli acquedotti e centinaia di persone l’hanno… bevuta. “Sembra che siamo in guerra, qui sono tutti matti”, mi risponde la cassiera cui ho chiesto se ha capito perché tutti escano con i carrelli colmi di bottiglie di acqua e gli scaffali siano vuoti.

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    I bar inspiegabilmente chiusi sul far della sera (poi evidentemente qualcuno deve aver fatto presente che il pericolo di contagio non è che cominciasse alle sei della sera, che se ci fosse un nuovo Garcìa Lorca ci avrebbe fatto un altro “Lamento”, quello che, raccontando della morte del torero nell’arena, ripete ossessivamente “alle cinque della sera”: “negli angoli gruppi di silenzio / alle cinque della sera / solo il toro ha il cuore in alto / alle cinque della sera (…) la morte pose le uova nella ferita / alle cinque della sera (…) e la folla rompeva le finestre / alle cinque della sera”.

    Le chiese vuote. Niente Messe, figurarsi le processioni. Quando ce la prendiamo con i provvedimenti del Governo e della Regione, dovremmo ricordare che c’è stato di peggio. L’11 giugno 1630, a fronte dell’infuriare della peste in Milano i “decurioni” (il governo cittadino) andò a chiedere al card. Federico Borromeo di organizzare una solenne processione portando in giro il corpo del venerato suo predecessore (e cugino) S. Carlo Borromeo (canonizzato giusto vent’anni prima, quasi a furor di popolo). Il cardinale cedette alle insistenze, la processione provocò un boom di contagiati che non se la presero col Santo ma con i presunti… “untori” che si sarebbero infiltrati tra la folla: seguirono processi ed esecuzioni sommarie di gente che non c’entrava nulla ma la massa voleva trovare comunque un “colpevole”.

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    La folla che prende forza dall’essere tale, gomito a gomito contro il nemico che è estraneo, esterno, forestiero “di lingua, d’altare, di memoria, di sangue e di cor” e soprattutto di fede politica, si sfrangia, si frantuma di fronte al pericolo che è dentro la sua pancia, ognuno per sé, il vicino fino a un momento prima amico, compagno, camerata, perfino tifoso ultrà della stessa curva, adesso potrebbe essere il nuovo “untore”, si salvi chi può, corsa al rifugio dentro casa, porte sbarrate, chi suona alla porta potrebbe essere portatore di morte, homo homini lupus.

    La paura, il panico, la fuga: come nella favola raccontata da Vecchioni in Samarcanda, il soldato che vede la “nera signora” (la morte) e scappa a Samarcanda ma quando arriva là, la “nera signora” è proprio lì e gli dice, “ma cosa ci facevi l’altro ieri là? T’aspettavo qui per oggi a Samarcanda, eri lontanissimo due giorni fa, ho temuto che per ascoltar la banda, non facessi in tempo ad arrivare qua”. Fuggendo la morte è andato incontro alla morte. Chiudersi nella propria solitudine serve a niente. E non ci si dovrebbe sorprendere poi che “quando si muore, si muore soli”.

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