GRAFFITO

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    Piero Bonicelli

    L’annuncio di carri armati ai confini, non passa lo straniero, dal Piave al Brennero, la storia alla rovescia. A me torna in mente la favola di quel bambino olandese che mettendo il dito nella fessura della diga salvava il paese dal disastro. Appunto, è solo una favola. Ho in memoria il disastro della diga del Gleno. No che non si ferma con un dito, con una diga, con un carro armato un esodo di popoli affamati, illusi, disperati tra cui naturalmente si infiltrano anche i furbi e i delinquenti (che in genere però, essendo furbi, mica rischiano, fanno percorsi “privilegiati” e semmai sfruttano le occasioni per far soldi). L’Italia è un immenso porto di mare. Il resto fa muro (anche letteralmente, come tra Ungheria e Serbia), il sogno di un’Europa (e poi del mondo) aperta, con le frontiere abbattute come il muro di Berlino, ha un brusco risveglio, dilaga la paura, ci si chiude dentro i confini segnati da una storia che non è nemmeno secolare, le cartine geografiche sui muri delle aule scolastiche sono state aggiornate dopo l’ultima guerra e ancora molto dopo, trent’anni fa, con lo sfaldarsi della Jugoslavia e dell’impero sovietico.

    “Siamo soli” canta Vasco Rossi. Noi a mettere il nostro ditino nella diga. La vignetta impietosa di ElleKappa è la sintesi più efficace: “Tra il dire e il fare… va a finire che ci pensa il mare”. Già, Il mediterraneo, l’immenso cimitero di uomini e donne che si erano illusi che di là ci fosse il paradiso terrestre, il nostro “paradiso”, quello che noi descriviamo spesso come un “inferno”, ma che poi guai se “questi qui” vogliono entrarci.

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    “Chi viene voi adesso? E’ Kranz che viene voi adesso”. Paolo Villaggio si precipitava su per le scale dello studio televisivo con due cammelli di peluche sottobraccio per poi tentare esperimenti dolorosissimi che lui esorcizzava in diretta “non mi sono fatto niente” per poi uscire di scena e si sentiva solo un urlo di dolore dietro le quinte. Poi rientrava come niente fosse. Mia madre non lo sopportava nel vederlo in tv presentare un programma (“Quelli della domenica”), di intrattenimento che era l’alternativa a quelli buonisti di Rai uno: “E’ un villano!”, diceva mia madre. Paolo Villaggio proprio non le piaceva. Era il tempo in cui approdava in tv il non sense per pochi eletti, fine anni sessanta, fuori il mondo era in sussulto e invece Cochi e Renato proponevano quel loro cantare canzonette con movimenti di gambe sfoggiando monologhi e dialoghi improbabili (“Bene, bravo, sette più”) con il contraltare di Ric e Gian (non all’altezza alternativa del programma).

    Siamo tutti Fantozzi, vigliacchi, con punte di ribellione di cui ci meravigliamo noi stessi, subito pronti a rimangiarcele se non sono condivise, per paura di ritorsioni e per convenienza. Mandiamo sempre avanti gli altri per vedere l’effetto che fa, poi nel caso saliamo sul carro del vincitore di giornata, pronti a saltar giù al volo se cambia il vento.

    Ho un’età in cui mi pesano gli addii, anche di gente che non ho conosciuto, ma che è riuscita a segnare un tempo che ho vissuto. E che nel caso coincideva con l’agonia della civiltà contadina e noi studenti-lavoratori (che detto adesso sembra un ossimoro) respiravamo per la prima volta l’aria di una rivoluzione sociale e culturale. Ci illudemmo di cambiare il mondo. Il mondo ha cambiato noi.  

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