benedetta gente

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    Constatato e ribadito che il tempo segnato dai calendari è pura convenzione, che i vecchi, come la vecchietta di Siracusa, non si sanno più illudere che le cose cambino (in meglio), che i giovani guardando al presente, cominciano a temere per il futuro (c’è stato un tempo in cui alla loro età un’intera generazione ha tentato di costruirselo), il mondo tanto vale tenerlo colorito di vecchie favole. Come quella della Befana che “vien dai monti a notte fonda / come è stanca! La circonda / neve, gelo e tramontana” (Pascoli). Che poi sarebbe la festa dell’Epifania, ma, come il dirimpettaio Babbo Natale ha messo in secondo piano Gesù Bambino, anche la Befana ha soppiantato la storia dei Re Magi.

    Un aeroplano / nell’aria bionda e calda vola piano / lascia un bel mondo dal colore baio / dove c’è il fiume di gennaio / Scendi, pilota / fammi vedere, scendi a bassa quota / che guardi meglio e possa raccontare…” (Paolo Conte).

    Chi arrivasse dall’alto, da un altro mondo, piomberebbe su un mondo malato, in mezzo a un formicaio di uomini e donne impauriti che girano in tondo cercando vie di fuga improbabili, visto che il mondo è rotondo. Ma, a differenza dei re Magi, non aspettiamo nessun salvatore, il Natale stesso è stato svuotato di attesa. Dal lontano oriente venivano i Magi, seguaci di un’antica religione fondata da Zarathustra (chiamato anche Zoroastro), originario della terra dell’attuale Afghanistan dove adesso i Talebani piegano la religione al loro settario interesse di dominatori. La setta dei Magi credeva in un Dio e un Salvatore che sarebbe stato partorito da una vergine fecondata dallo stesso Zarathustra. E che ci sarebbe venuto a fare, dall’alto, sulla prona terra, secondo quei sacerdoti afghani ante litteram, quell’atteso Salvatore? A presiedere alla resurrezione dei morti, dispensando la giustizia che gli uomini aveva del tutto dimenticato. E tutta questa attesa, tutte queste credenze erano coltivate mille e più anni prima della nascita di Gesù. Quella dei Magi era la tribù afghana sacerdotale (come tra le tribù d’Israele, quella dei Leviti, discendenti di Levi, terzo figlio di Giacobbe). E cercavano un segno nel cielo, un segno annunciato. Lo trovarono, loro.

    Da quale terrazzo, da quale cima di monte oggi potremmo riconoscere quel segno non sapendo distinguere, anche lo vedessimo, un segno di nascita da uno di morte? Perché se qualcuno è riuscito a controllare le nascite, nessuno è mai riuscito a controllare le morti, solo a contarle, come nel bollettino quotidiano del Covid.

    Dio è morto, Marx pure e anche noi non ci sentiamo molto bene”, per dirla alla Ionesco (poi ripresa da Woody Allen). Ma se lo si dà per morto vuol dire che per millenni c’è stato chi lo creduto vivo. In questa terribile interminabile pandemia, la sorpresa è che nessuno lo ha chiamato in causa, ma è sorprendente anche che pochissimi lo abbiano anche solo chiamato, magari invocato, perfino pregato nell’evidente impotenza di fronte al male dilagante. Non è più Dio che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, è l’uomo che si è fatto Dio di se stesso, una moltitudine di piccoli dei che si adorano per conto loro.

    E il formicaio gira e rigira su se stesso. E allora… “Gira pilota / recuperiamo il cielo ad alta quota / torna nel mondo dal bel colore baio / trovami il fiume di gennaio”.

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