VAL DI SCALVE 1981-2021: 40 ANNI DALLA TRAGEDIA DEL PUKAJIRKA – “Sotto i piedi sentii come un terremoto e mi sentii strappare dalla parete. Era partito tutto”. Il racconto dei due superstiti

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E’ il giorno della tragedia, martedì 14 luglio 1981. Rocco Belingheri parte per primo con Nani Tagliaferri e Italo Maj alla ricerca della strada più facile e più breve per superare i seracchi e i crepacci. Rocco arriva al muro di ghiaccio, il primo dei due famosi muri di ghiaccio del Pukajirka. Ben presto questa cordata si trova impelagata in passaggi difficili da superare. «E’ il solito “vizio” di Rocco che quando vede un punto di riferimento ci va diritto, senza la pazienza di girare intorno alle difficoltà». Flavio Bettineschi e Livio Piantoni, partiti dietro e con più calma, trovano la strada più facile, scendono un po’ verso destra e poi risalgono senza fare fatica; quindi, Flavio e Livio segnano con le bandierine un percorso più agile e meno faticoso. Le due cordate si riuniscono infine sulla cresta.

«L’intenzione, per quel giorno, non è proprio di arrivare in vetta, vorremmo soltanto fare una specie di perlustrazione per valutare le difficoltà dei muri e per attrezzare qualche passaggio in modo da trovare meno difficoltà il giorno dopo, quando è stabilito di attaccarli per arrivare in vetta. Le due cordate procedono prima una e poi l’altra. Si fa fatica perché c’è neve fresca.

Quando arriviamo sotto il muro ci guariamo in faccia e ci diciamo: “Possibile che questi muri fermino tante spedizioni?”. Sapendo di essere bene attrezzati e di poterci fermare anche tre giorni, pensiamo: “Piuttosto li disfiamo pezzo per pezzo per superarli, ma in qualche modo andiamo oltre”.

Portiamo con noi delle radioline collaudate più volte prima della partenza. A Vilminore erano sempre andate benissimo ma qui non c’è verso di farle funzionare. Tentiamo in tutti i modi di ripararle per comunicare con il campo base, ma non c’è niente da fare».

 

Ecco cosa succede intanto al campo base nel racconto di Bruno Berlendis, il capo spedizione: “Sono le otto di primo mattino quando individuiamo nitidamente, attraverso le lenti del binocolo, le nostre cordate uscire dal grande crepaccio a forma di mezzaluna, dove si nasconde il campo 2. Brandelli di nebbie strisciano contro la parete… Le due cordate, staccate fra loro, salgono le dolci gibbosità sottostanti la cresta sommitale, quindi scompaiono a noi, appena raggiunto lo spartiacque. Purtroppo il tempo sembra incerto. Mai abbiamo notato, da quando siamo giunti, turbinare nel cielo tante nubi grigiastre e minacciose…

Il tempo trascorre lento. Le nebbie stazionano ostinate, mentre, al contrario, qui da noi il sole come sempre è vivo e caldo. Vogliamo vedere. Vogliamo sapere… Ci alterniamo continuamente all’osservazione… Nella stressante apprensione in cui viviamo, scandagliamo, sondiamo e indaghiamo nel buio delle nebbie…”. Torniamo ora al racconto di Flavio e Rocco.

«Mentre saliamo ci chiediamo l’un l’altro quali sono le condizioni fisiche. Tutti rispondono che non esistono problemi. Magari lo si sarebbe detto comunque, ma essendo carichi degli zaini non si può mentire quando si sale. Vogliamo tentare di fare il maggior lavoro possibile, perché il tempo può cambiare da un momento all’altro. Quando si sta bene, è inutile aspettare. In più c’è il problema dell’altitudine che può far sentire i suoi effetti quando meno ce lo aspettiamo. Per tutti questi motivi è importante guadagnare tempo. Siamo dunque davanti a quel terribile muro, che terribile non ci appare più, almeno a prima vista. Ciò nonostante si presenta sempre imponente: dieci metri circa di altezza, ghiaccio vivo. In cima fa un po’ di cornice, di cresta, che viene in avanti».

Rocco è del parere di salire sulla sinistra, ma non si capisce se in cima c’è un’uscita, anche se si intravede un po’ di luce. Flavio, invece, è del parere di salire sulla destra.

Da questo momento il racconto è differenziato e lo proponiamo così come ci è stato raccontato dai due superstiti.

Flavio: “Ho detto, parto io. Avevamo solo il materiale che ci occorreva al momento. Mi attrezzo: prendo in spalla due chiodi lunghi, due o tre chiodi a vite. Livio pianta la piccozza sulla crosta e tutti quanti tengono la corda. Così, scendo. Davanti al muro non c’è più la crestina di neve che avevamo visto nel filmato della spedizione effettuata l’anno precedente. Si era formato un crepaccio. Scendo nel seracco, attacco la parte del muro e incomincio a risalirlo. All’estremità del muro esce una specie di tetto: non tento di superarlo, anche perché si può evitare. Allora esco sulla destra, sul versante opposto della montagna e così aggiro l’ostacolo, fino alla sommità, dove incomincia a spianarsi. Lì c’è neve fresca e la piccozza non serve più. Prendo due chiodi di quelli lunghi e alternando la spinta li pianto nella neve, poi con i ramponi spazzo la neve sul ghiaccio e riesco a salire…

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