Storie di Donne – PEIA – VERTOVA – LEFFE – Simona, 25 anni: “La mia vita con l’anoressia, i ricoveri, le ricadute e poi la rinascita. Agli adulti dico: spendete il vostro tempo con i ragazzi…”

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di Giuseppe Carrara

Simona abita a Peja e compirà quest’anno un quarto di secolo. Sembra molto detto così, ma è ancora una ragazzina. Due occhi azzurro perla, capelli lunghi biondi ed un sorriso che sa di purezza d’animo. Ad ascoltarla ti viene in mente “canne al vento”. Se il vento soffia leggero le canne flettono e accarezzano la terra. Se il vento supera una certa forza le canne si spezzano. Come è stata la tua infanzia Simona? “Da piccola amavo stare con mio fratello, più grande di me di due anni. Era bello quando lui mi svegliava ed insieme guardavamo i cartoni animati “. Dopo di lei nacque un altro fratello e crescendo, Simona, si è sentita un po’ in “minoranza”. “Durante la preadolescenza alcune persone mi prendevano in giro per il mio peso. Non ero grassa, un po’ rotondina, ma la situazione mi faceva stare male. Io lo tenevo dentro di me, avevo paura di “denunciare la cosa” perché essendo io sensibile e fragile, non volevo mettere in cattiva luce i miei “compagni”. Simona comincia così a volersi dimostrare forte, “prendendo il controllo” di sé nell’assunzione dei cibi. “Ho iniziato all’età di 12 anni a togliere i dolci ed i carboidrati, e nel giro di tre o quattro anni sono dimagrita a dismisura”. Nel frattempo nasce un’altra sorella. La famiglia di Simona è una famiglia modello; il papà è un gran lavoratore e soprattutto è uno che non smette mai di dare una mano a chiunque. È impegnato da sempre in oratorio in molte attività e ci tiene molto alla “Messa domenicale”, ma Simona, il fatto che si debba andare a Messa per forza non lo digerisce proprio, un po’ come il cibo. “A forza di impormelo, andavo a messa e stavo in fondo alla Chiesa aspettando che la “Cerimonia” finisse per “andare in pace”. Il difetto degli adulti di “imporre”  la Messa domenicale è una pratica ancora molto in uso, anche se “alcuni studi scientifici” hanno dimostrato che chiunque venga “invitato obbligatoriamente” a fare una determinata cosa, di solito, in qualche modo si ribella. “Santa Messa a parte, ho iniziato a frequentare la prima superiore come “stilista”. Ho fatto una scelta molto sbagliata; le mie compagne mi chiedevano di fare da modella ed io non mi sentivo abbastanza perfetta. Ho iniziato così, verso la fine della prima superiore, un percorso ambulatoriale, attraverso il quale mi facevano assumere un certo numero di calorie, ma questo non è servito praticamente a nulla perché in fondo il problema principale stava molto più a monte. Il percorso durava 12 settimane e nelle ultime tre sono finita nella “neuropsichiatria infantile di un altro ospedale“; mi hanno dovuto mettere il sondino perché non mangiavo più nulla: mi hanno dovuto salvare la vita. Poi ho concluso le ultime tre settimane all’ospedale si Esine dove sentivo immensamente la mancanza di mia mamma”.

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