di Luca Mariani
“Essere una donna non vuol dir riempire solo una minigonna. Essere una donna è di più.” E Giuseppina Arpaia lo sa bene. Sa bene cosa vuol dire essere ragazza in un ambiente maschile, sa bene cosa vuol dire essere moglie e poi madre, divorziata e poi sola, casalinga e poi studente-lavoratrice. Sa bene che la vita non è un percorso in linea retta, ma un infinito slalom tra gli imprevisti, le lacrime, gli incontri e i sorrisi di ogni giorno. Lei che è nata a Santa Maria la Carità, in provincia di Napoli nel febbraio 1970, che a 16 conosce il ragazzo che nel 1988 diventerà suo marito. «Io ero casa e chiesa. Mi sono sposata con la speranza di avere più libertà, però non è stata così. Non per colpa di mio marito, ma l’ambiente era quello, si lavorava e basta. Era chiuso.»
E dopo il matrimonio la maternità. A vent’anni nasce Regina e nel ’94 arriva Anna. Così le giornate di Pina passano tra le mura domestiche con pannolini, pavimenti da pulire, lavatrici, pasti da preparare e stoviglie da lavare. Per rompere questa routine domestica, quando ha ventott’anni inizia a lavorare in un negozio di confezioni di sartoria: «Ci ho provato soltanto un mese, perché mio marito non voleva. Voleva che facessi la casalinga. Perciò non mi veniva incontro. Dovevo fare tutto io, accompagnare le bambine a scuola e all’asilo. Andarle a riprendere e tenere la casa. Ho fatto un mese stressante e alla fine ho preso solo 400 mila lire. Allora ho detto basta. Non avendo aiuto a casa era insostenibile.»
Poi, all’inizio del III millennio, superati i trent’anni, Pina ha ancora voglia di maternità: «Forse perché ero cresciuta insieme a alle mie figlie.» E così succede. La casalinga ormai trentaquattrenne resta incinta: «Volevo un figlio maschio perché diventasse sacerdote, semplice, ma bravo. Non so se è Dio, il destino o il caso, ma è successa tutta un’altra vita.» Infatti già durante le prime visite il ginecologo si accorge che il feto ha delle misure che non coincidono con quelle di uno sviluppo normale. «Allora sono andata da un altro dottore. Lui mi ha garantito che era tutto a posto.» I nove mesi passano sereni. «Quando hanno fatto il cesareo ed è nato Matteo ho visto i medici che si sono guardati sbalorditi. Pensavo avessero trovato qualcosa a me, non al bambino. Quando l’ho visto ho avuto la sensazione della sindrome. Però era più di 4 chili, cicciottello, con un faccione e quindi forse avevo sbagliato. Durante il parto gli hanno fratturato il femore, quindi non l’ho più visto, perché l’avevano portato in un altro ospedale per sistemarglielo. Però i dottori, le infermiere e la famiglia avevano delle facce un po’ strane. Poi il dottore è venuto in stanza e mi ha chiesto perché non avessi voluto fare l’amniocentesi. Lì ho avuto la conferma. Quando dopo due giorni sono andata a vederlo, i dottori mi hanno detto che stavano facendo dei controlli. Io ho chiesto: “è per la sindrome di Down?” Loro si sono boccati e mi hanno chiesto se già lo sapessi. Ho risposto che l’avevo capito, appena l’avevo visto.»
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