Di Giorgio Fornoni
Ero stato sulla Montagna Sacra cinque anni fa, affascinato dalla spiritualità che emana da quella striscia di terra immersa nell’azzurro dell’Egeo, difesa da secoli come il baluardo della vera fede. Il Monte Athos è “il regno senza corona, la nazione senza un esercito, la terra senza donne, la ricchezza senza il denaro, la saggezza senza scuole, la cucina senza la carne, la preghiera senza fine, il legame permanente col cielo, l’inno infaticabile a Cristo, la morte senza rimpianti”. San Nicola di Serbia definiva così l’utopia religiosa che nacque 1000 anni fa, come sospesa tra la terra e il cielo.
Quella volta avevo visitato i venti monasteri che punteggiano la penisola a sud di Ouranopolis, avevo ammirato le straordinarie pitture dei “catholikon” e dei porticati, mi ero adattato al ritmo di una vita scandita dal tempo liturgico delle preghiere. Il calendario è quello lunare ortodosso, 13 giorni indietro rispetto a quello gregoriano.
Ogni monastero ha i propri orari di culto e di devozione. Già alle 3 di mattina si odono le litanie e i canti del monaci, all’interno di buie navate rischiarate soltanto dalle fiammelle delle candele. Ma i monaci si alzano già un’ora prima e si preparano individualmente alla preghiera. Le orazioni si protraggono per quattro ore. Si dedicano poi al lavoro manuale e verso le 14 tutti si riuniscono nel refettorio, ammantato della stessa sacralità delle loro chiese. Ci si siede attorno a tavoli di pietra a ferro di cavallo e in silenzio, davanti ad un pasto frugale interamente vegetariano che diventa anch’esso un rito rigidamente codificato. Si mangia una volta al giorno e soltanto quando l’Igumeno, l’abate capo del monastero, dà l’ordine, al suono di un campanello. Il pasto si consuma in fretta, perchè il cibo deve nutrire, non dare piacere. Poche ore di riposo e poi tutti ritorneranno tra gli incensi, i canti e le candele…
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