Le donne di montagna al tempo delle disgrazie

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Un 8 marzo passato in sordina. Molto in sordina. Non c’era l’atmosfera per pensare alle mimose, in casa già ci si guardava con apprensione, il contagio si diffondeva nei paesi, le ambulanze, le chiacchiere su chi stava male, chi aveva solo la febbre, chi era già ricoverato negli ospedali. Eppure le donne nei secoli hanno sempre avuto il ruolo anche di “infermiere”, sembravano indistruttibili e anche questa volta quel maledetto coronavirus sembrava averle preservate, poi i primi casi anche al femminile.

Vogliamo comunque ricordare le donne dedicando loro questo spazio. Se lo meritano.

 

Un 8 marzo strano, quello appena trascorso, che non ha visto le consuete “pizzate” tra amiche, i dibattiti, le proiezioni di film, i concerti, i sit-in e le altre manifestazioni con cui da un po’ di anni a questa parte si usa celebrare la Giornata Internazionale della Donna.

Insomma un festa decisamente sottotono, per le ovvie ragioni di precauzione contro il contagio. Misure che però non  possono impedirci una riflessione sulla figura della donna nella nostra storia, in cui il ruolo delle donne è sempre stato preminente, al punto che – come scrive la storica delle culture popolari Laura Tuan – lo spirito matriarcale nelle Valli alpine e prealpine non è mai morto:

“Per quanto represso, calpestato, rinnegato, il potere della donna riecheggia ancora nella memoria delle anziane, nelle ricette erboristiche, nei tratti fieri – lineamenti da ‘signora di casa’ e da ‘signora della situazione’ – ancora scolpiti nei volti della vecchia guardia matriarcale., nonché nel simbolismo delle innumerevoli Madonne, che dalle santelle e dagli antichi santuari proteggono le valli, eredi delle più antiche dee della terra, delle acque e della forza creativa del femminile”.

Le nostre antenate matriarche

Vale dunque forse la pena, anche come omaggio, seppur tardivo, alle nostre antenate, soffermarci in particolare sul ruolo della donna della montagna, una condizione specifica e particolarmente significativa dell’universo femminile della nostra regione, perché anche nelle nostre Valli vigeva un matriarcato di fatto: gran parte degli uomini (pastori, boscaioli, minatori, muratori) se ne andava in giro per il mondo per la maggior parte dell’anno e quanto questo condizionasse la vita delle loro donne è evidente: esse non dovevano temere le lunghe attese, dovevano rassegnarsi a non aver loro notizie per lunghi periodi, ad allevare i loro figli pressoché in solitudine, a prendersi cura dei vecchi e dei malati… E sempre senza l’aiuto del marito allevare parallelamente anche qualche vacca, qualche maiale, galline e conigli, coltivare l’orto, pensare alla fienagione, alla filatura ed alla tessitura della lana, della canapa, del lino: tutte le attività necessarie alla sussistenza, nel contesto della difficile economia della montagna, attività praticate dalle donne con un “surplus” di fatica e di responsabilità.

Non è del resto una novità che nella società alpina la figura del maschio – marito e padre – proprio a causa delle sue lunghe assenze, non fosse poi così importante: significativi, a questo proposito, due vecchi proverbi che ho sentito ripetere tante volte dalle anziane del mio paese: La fómna la sta bé co’ l’óm ivvià e coi solcc in cà (La donna sta bene con l’uomo lontano e coi soldi in casa); e Ardìsne, tuse, da l’óm che ‘l vàrda semper in dol caàgnöl. (Alla larga, ragazze, dall’uomo che sta sempre a guardare nel vostro cesto da lavoro, insomma dall’uomo che sta sempre in casa).

Io penso perciò alle nonne e alle bisnonne dei nostri paesi come alle nostre “madri antiche”, anche se dalla loro scomparsa sono trascorsi pochi decenni, perché è pur vero che sulle montagne le condizioni di vita premoderne hanno continuato ad esistere quasi fino a ieri”.

Voglio dunque ricordarne alcune, perché queste donne hanno incarnato i valori del matriarcato nei suoi vari aspetti, rappresentando quei significati profondi della femminilità che la violenza mercificante della società dei consumi sta travolgendo, lasciando le donne più sole e infelici dentro le gabbie della razionalità produttiva.

Ricordano, queste donne, le donne selvatiche delle leggende alpine e nordeuropee, caratterizzate dalle vesti colorate, dalla disposizione a danzare, a cantare, a raccontare, le attività che stabiliscono il loro contatto profondo con gli uomini e con la natura; donne generose nel dono di sé e del loro sapere, ma attente custodi del mistero della loro identità profonda, archetipi di autonomia femminile e nello stesso tempo di grande ricchezza nelle relazioni affettive, spirituali, erotiche; donne che rappresentano, come scrive Claudio Risè, i tre aspetti di una stessa forza creatrice elementare: la potenza della voce; la trasformazione di tale forza cantata e raccontata in energia di nutrizione; e la facoltà di procreazione”.

Caterina

Il lavoro delle donne in alpeggio è pressoché infinito: tutte le incombenze di una casalinga qualunque, unite talvolta a quelle di madre e spesso a quelle di una casara. ..

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