Scrivere di sé stesso, e soprattutto su sé stesso, dopo una vita intera dedicata a tante cose nella quale si è anche scritto tanto, ma mai in riferimento alla propria persona, è per me un fatto nuovo.
Ecco perché ho riflettuto qualche giorno prima di accettare l’invito rivoltomi da Aristea, la cui ventennale conoscenza mi consente di chiamarla per nome e che non sentivo da anni, per scrivere della malattia che mi ha colpito dieci anni fa, quando ne avevo sessanta. Infatti ho sempre considerato le parole, pronunciate o scritte non fa nessuna differenza, non solo come modalità generica di comunicare, ma essenzialmente come veicolo attraverso cui estrarre da sé stessi pensieri, concetti, sentimenti, analisi per poi trasmetterli a chi ascolta o legge con un senso compiuto, strutturato, dal significato ben definito, non intercambiabile; tutto questo per sommo rispetto del lettore o di chi ascolta, per non generargli equivoci, malintesi, interpretazioni fuorvianti, generatrici a loro volta di altri fiumi di parole.
Per questo ho sempre ritenuto che si debba prestare massima attenzione al modo in cui si parla e si scrive. Certamente di acqua ne è entrata ed uscita molta nel nostro lago da quando, alle Scuole Medie, la Professoressa Palazzolo nel consegnarmi il tema di Italiano mi diceva: “Devi sviluppare meglio questo concetto…e qui cosa intendevi dire?”. Oppure nei primissimi anni ’70, al Ginnasio, quando prendevi la parola durante le assemblee o gli scioperi studenteschi e tanta era la paura di parlare in pubblico che la bocca si seccava. Ma al Liceo già non accadeva più, trasmettendoti il senso della plasticità della mente e del corpo umano e di quanta potenzialità ci sia in ognuno di noi.
“Quella mattina di settembre 2015: scendo le scale e mi accorgo
che il piede non appoggia sul gradino… e poi la diagnosi”
Tutto ha avuto inizio una mattina di settembre 2015; mentre scendo la scala per recarmi al lavoro, mi accorgo che il piede destro non appoggia bene sul gradino, come se sfuggisse un po’ via; mi attacco alla ringhiera ed in fondo alla scala il disturbo scompare. “Strano – penso – ieri sono stato in montagna e non mi sembra di aver preso una distorsione, forse non me ne sono accorto”.
Passano alcuni giorni, assorbiti come sempre da tanti impegni col ricordo ormai sbiadito di quanto accaduto al piede, ed ecco che il disturbo ritorna e stavolta dura alcune ore. Inizio a domandarmi su quale possa esserne la causa e, da medico, non posso nascondermi che si focalizzi sul Sistema Nervoso, ma quale? Il Centrale od il Periferico? Subito la mente si accomoda sullo “sgabello” più comodo: “Sarà una delle mie ernie lombari che si fa risentire – mi dico – e dovrò fare una Risonanza al rachide lombosacrale e per sicurezza anche all’encefalo”. Nessuno dei due esami è dirimente: l’encefalo è normale e nessuna delle due ernie discali mostra segni compressivi sulle radici del nervo sciatico. Bisogna approfondire e mi affido alla competenza di un collega Neurologo di cui avevo fiducia. Il percorso che alla fine porta alla diagnosi di una malattia neurodegenerativa, come alla fine si è rivelata la mia, è sempre tortuoso e non breve, spesso si deve andare per esclusione, scremando il campo da varie ipotesi, perché di frequente a sintomi simili corrispondono patologie diverse.
Quindi ancora esami più specifici, per alcuni dei quali le risposte avevano bisogno di diverse settimane, un ricovero al Civile di Brescia ed alla fine, alcuni mesi dopo, il quadro si delinea per quello che era. Se per un medico non è mai facile comunicare al paziente diagnosi di patologie evolutive e che non prevedono terapie specifiche risolutive, su me la notizia è stata ancora, se possibile, più amara, carica già delle conoscenze derivanti dal capitolo prognosi.
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