“Più morti sul lavoro che in una guerra “

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    Uomini che si alzano quando il sole non si è ancora accorto che è già giorno, infilano una tuta e vanno al lavoro come se si andasse a ‘mischiarla su’ in guerra, senza saperlo o forse sapendolo, senza i media dietro e davanti, senza inni di Mameli quando la bara rientra, senza saluti militari, senza niente. Perché gli incidenti sul lavoro in Italia negli ultimi anni hanno fatto più morti della seconda Guerra del Golfo: il dato è dell’Eurispes, che ha calcolato come dall’aprile 2003 all’aprile 2007 i militari della coalizione che hanno perso la vita sono stati 3.520, mentre, dal 2003 al 2006, in Italia i morti sul lavoro sono stati ben 5.252. Un incidente ogni 15 lavoratori, un morto ogni 8.100 addetti: queste le cifre, secondo le elaborazioni Eurispes, del fenomeno. Ci hanno pensato i sette operai della Thyssen a muovere i media, a muovere lutti nazionali e inni di Mameli, ce ne sono voluti sette in una volta, c’è voluto lo strike per tirare l’occhio. Che certi mestieri vanno a quantità, altri nemmeno a qualità ma fanno rumore, sempre e comunque. I sette operai della Thyssen hanno svegliato la voglia di buttare un occhio dove si muore senza clamore, perché non ci sono guerre in corso, non ci sono interessi politici e quelli economici sono solo parziali. Non ci sono omicidi o rapine, è la semplice routine, i sette operai della Thyssen sono diventati troppo per una ‘semplice routine’ che ragiona a quantità, ma hanno acceso la luce su tutte le altre semplici routine che succedono dappertutto, nella nostra provincia come in altre. Si contano i morti per le statistiche, qualcuno prova a lasciare perdere i numeri e raccontare le storie. Come la storia di Fabrizio che ha fatto rumore qualche mese fa solo al suo paese, periferia sud di Brescia. Ogni mattina gli stessi gesti, alzarsi presto, accarezzare una faccia, sfiorare con le labbra un viso e salutare discreti per non fare troppo rumore, lasciare dormire i bimbi, che per la scuola ci stanno ancora due ore di sonno, infilarsi la tutta e le scarpe ‘del lavoro’ e uscire con un caffé che scivola caldo nello stomaco. Fabrizio tutte le mattine correva al cantiere edile, due figli a casa, uno che sta per arrivare, un mutuo da pagare, una moglie che lavora part-time in un supermercato e il lavoro all’aria aperta, che lui lo dice sempre: “Meglio avere per soffitto un pezzo di cielo che uno di cemento, ai soffi tti di cemento ci penso già io”. Quel giorno mancavano 4 settimane all’arrivo del terzo fi glio e Fabrizio si era alzato di buonora, la moglie da portare all’ultima visita ginecologica e poi via sul cantiere. C’è fretta, tanta, mica da parte di Fabrizio che il suo lavoro lo conosce bene, lo fa da una vita e i muri li cesella come fossero quadri d’autore perché i muri rimangono e li vedono tutti, più dei quadri d’autore che si chiudono in gallerie e sono per pochi intimi. Così che Fabrizio si sente un’artista e in fondo lo è. Quella mattina la gente ha fretta, troppa, arriva il camion che scarica le grandi lastre di vetro e metallo da coprire la struttura che fa da tetto. Gli passano sopra la testa, una lastra scivola, lui capisce, che Fabrizio sa indovinare esattamente il peso di un uccellino in volo, o almeno ai suoi fi gli dice sempre così. La lastra scivola e gli arriva sul collo, trancia la gola e, trancia tutto, rimane tutto lì, Fabrizio l’artista con la sua cazzuola e il cielo a fargli da soffitto. Raccontano gli amici che il cielo quel giorno si ostinava a cambiare colore, nuvole e sole, nuvole e sole, quasi facesse le bizze, quasi si rifiutasse di non fare più da soffitto al suo artista… che quel soffitto adesso lo ha fatto diventare il suo pavimento, perché in cielo ci abita. E forse l’unico modo per fare rumore è provare a far presente a qualcuno che a risentirne è anche il portafoglio, infatti gli infortuni costano ogni anno alla comunità 50 miliardi di euro: “Con le imprese, anziché vessarle fiscalmente e burocraticamente – ha proposto Daniele Capezzone presidente della Commissione attività produttive della Camera – occorre fare un patto per la sicurezza, intensificare i controlli ed eliminare il meccanismo appalti-subappalti”. Se si raffrontano i dati di adesso con quelli di 25 anni si scopre che le cifre restano più o meno le stesse, in una società che progredisce in tutto, qui non è stato fatto nessun passo avanti. La mappatura, realizzata dall’Eurispes elaborando dati Inail, evidenzia come ogni anno in Italia muoiono in media 1.376 persone per infortuni sul lavoro. Poco meno del 70% dei lavoratori (circa 850) perdono la vita per cadute dall’alto di impalcature nell’edilizia, ribaltamento del trattore in agricoltura, in un incidente stradale nel trasporto merci per le eccessive ore trascorse alla guida. L’età media di chi perde la vita sul lavoro si aggira sui 37 anni. Le donne infortunate sono in media il 25,75% e i decessi si attestano su un valore medio del 7,7%. Un dato interessante riguarda gli immigrati. La percentuale media delle denunce per infortunio tra i lavoratori immigrati è dell’11,71%, mentre quella dei decessi è del 12,03%: la sostanziale uguaglianza, sottolinea il rapporto, è anomala, dato che per i lavoratori italiani la percentuale degli incidenti è di gran lunga superiore a quella dei morti. Il fatto che la percentuale dei lavoratori immigrati deceduti sul lavoro è leggermente più alta di quella degli incidenti fa pensare che molti infortuni non siano denunciati. Se si rapporta il numero di morti al numero di ore lavoro o al totale degli addetti, la regione con la maggiore incidenza di morti bianche è il Molise, seguita da Basilicata e Calabria e in genere da regioni del Sud. Adrian ha perso due dita facendo il proprio mestiere. E’ un sarto. Al suo paese lavorava in modo tradizionale, come molti artigiani. Poi è arrivato in Italia e l’hanno messo a cucire con una macchina moderna. Solo che non gli hanno spiegato come funzionava la macchina e adesso Adrian si ritrova senza l’indice e il medio della mano destra. Non è un fatto episodico. Stando a una ricerca sul rischio infortunistico tra i lavoratori immigrati, presentata oggi dall’Istituto italiano di medicina sociale e dalla Caritas, nel nostro Paese uno straniero su 10 incorre in un incidente di lavoro. Proporzione più che doppia rispetto agli infortuni tra i lavoratori italiani, che colpiscono una persona su 25. L’indagine è stata realizzata sui dati Istat e Inail del 2001 ed è il frutto di un lavoro approfondito svolto da un’equipe di ricercatori. Un dossier di più di 200 pagine che dimostra come gli immigrati, delegati alle mansioni più pericolose o, come nel caso di Adrian, non adeguatamente formati, siano esposti a un rischio infortunistico molto più alto rispetto agli italiani. E questo in tutti i settori e in tutte le regioni.

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