Pirati d’anime nel mediterraneo, dalla Libia a Lampedusa sugli “zodiaci” della speranza

    90

    NEL MEDITERRANEO Dalla Libia a Lampedusa sugli “zodiaci” della speranza

    Le storie della vita, a loro modo, sono uniche e irripetibili. La vicenda di Mohammed si potrebbe defnire una sfida alla vita. Un duello ad armi impari che nasce dal disagio di una vita che di facile e scontato non ha davvero nulla. La sfida di chi nasce in Mauritania e lascia tutto, affetti compresi, per cercare fortuna in un mondo migliore, o che, almeno, sulla carta sembra tale. L’UNICO SUPERSTITE SUL LETTO DI… VITA Agosto. Mattina. Un paio d’ore dopo l’ennesimo sbarco. Sala medica del CPTA. Mohammed giace steso sul grigio lettino avvolto da carta igienica. Sembra svenuto ma il dottore spiega che è solo in stato di semi incoscienza. È fuori pericolo ma ha bisogno di assoluto riposo. Lo possiamo interrogare, certo, ma dobbiamo essere attenti a non stancarlo troppo. Lui tornerà tra dieci minuti per visitarlo di nuovo dopodiché dovremo sloggiare. Tassativo. Per comprendere le sue parole, una miscela di arabo, un dialetto francese e l’hawsa, una lingua locale, mi dà una mano il fido Hassan, ormai divenuto mio collaboratore fisso. Mohammed è riuscito a sopravvivere all’attraversamento del Mediterraneo, ma a differenza di tutti gli altri sbarcati, ha una peculiarità: è l’unico sopravvissuto del suo gruppo. Lo scruto mentre Hassan cerca di rompere il ghiaccio e prendere un minimo di confidenza. Veste come forse nessuno di noi (occidentali presunti evoluti) si vestirebbe mai, non porta orologi di marca, non è mai andato in vita sua dal parrucchiere, non paga il bollo auto solo perché un’auto non l’ha mai posseduta, non ha la più pallida idea di cosa sia un’estetista, non usa profumi ricercati, non possiede l’abbonamento a tv a pagamento, non legge mensili di moda e tendenza, non si interessa di politica, non naviga su internet e non è di certo il tipo che fa il sofisticato sulla scelta del vino quando il cameriere annota l’ordinazione al ristorante. È una persona di un altro mondo rispetto al mio. L’ennesima che incrocio a Lampedusa. Mohammed, nome arabo diffuso nel mondo come le parabole satellitari, è un ragazzo di colore, magro e dal viso segnato dalla fatica accumulata per sopravvivere. Ad un tratto mi guarda con occhi smarriti e poco reattivi. Le sue pupille si muovono lente e affannate, spostandosi dalle mie mani al mio viso a velocità ridotta rispetto a quella a cui sono abituato. Cerco di leggere tra le righe dei suoi muti atteggiamenti, tra i suoi movimenti, pesanti e zavorrati dalla sofferenza di un tragitto sopra un mare che la cartina geografica ha battezzato con il nome di Mediterraneo. Ci troviamo nello sbiadito studio medico del centro di accoglienza. Il pavimento, vecchio e zeppo di disegni appartenenti ad un’altra epoca, si intona alla perfezione al vetusto locale il cui bianco delle pareti fatica ad imporsi. Gli odori, acidi e intensi, rendono l’aria così fastidiosa che è necessario ignorarla e dirottare altrove l’attenzione dei sensi olfattivi. Mohammed porta pantaloni della tuta neri e una canottiera giallo polenta. Una coperta gli cinge lo stomaco, coprendogli la parte bassa del ventre. Alle sue spalle, solo un armadietto le cui ante di vetro mostrano poche varietà di medicinali e siringhe a volontà. Nel complesso lo studio medico è spoglio e regala un senso di povertà piuttosto che sobrietà. ITALY… FOOTBALL… BIG PLAYER… JUVENTUS… INTER… MILAN… Ci racconta che è nato e vissuto in Mauritania, fno a pochi giorni prima. Dopo aver deciso di lasciare tutto ciò che possedeva, ovvero poco, è partito alla volta del nostro paese, fetta geografica appartenente all’Europa, a quel mondo dorato che dalle parti dell’Africa deve brillare di luce propria a dismisura. “Italy… football… big player… Juventus… Inter… Milan…” intuisco tra le sue frasi. Il suo parlare a tratti incerto e stentato, zeppo di pause e un deglutire costante, indica che la sua è una ricerca al buio di qualcosa che si cela dietro il concetto di “fortuna” o semplicemente di “una prospettiva di vita migliore”. Nella sua terra sono rimasti il padre e la madre, contadini privi di stabile occupazione, dediti alla lavorazione della loro terra, insieme ai suoi quattro fratelli, tre dei quali più giovani di lui. Dice che da quelle parti si sopravvive così, aggrappati alla natura, ai suoi prodotti e soprattutto agli animali, fonte di latte e all’occorrenza di carne. Le aspettative di vita e di occupazione sono pari a zero o poco di più, quindi l’idea di mollare tutto per approdare in una nuova realtà più civilizzata, sorge spontanea come il sole la mattina presto nel cuore giovane di chi supera la fase adolescenziale. “Italy… football… big player… Juventus… Inter… Milan…” farfuglia di nuovo. * * * Mohammed sospira e fa per stirarsi sopra il lettino dove un febo lo sta alimentando. Ha avuto una crisi alimentare prolungata ed è molto debilitato. Ma è vivo e questo è già molto. Moltissimo. – E’ consapevole della sua fortuna di essere ancora vivo – mi conferma Hassan. Lo si intuisce anche dai cenni, dalla leggerezza del suo raccontare, debole ma sereno. Fatica a parlare, ha ancora in testa le persone che non ci sono più: i suoi compagni di viaggio. E’ un segno di rispetto – mi suggerisce Hassan a bassa voce. Mohammed scruta il soffitto e sfora l’ago che gli sta iniettando nel braccio preziosa energia vitale. Si copre gli occhi e li asciuga. È un attimo commovente e restiamo tutti in silenzio. Riprende a raccontare che è partito anche per aiutare la sua famiglia e che non appena avesse trovato un lavoro, uno qualunque, non importa davvero quale, avrebbe mandato dei soldi a casa affinché i fratelli crescano meglio di come stanno facendo ora. Per racimolare la cifra necessaria a pagarsi il viaggio sino alle coste italiane, Mohammed è stato costretto a vendere alcune mucche e ipotecare parte della casa. Poi scende nei dettagli. CRONACA DEL VIAGGIO DELLA SPERANZA. GLI “ZODIACI” DEI MERCANTI DELLA MORTE Il primo passo è quello di imbarcarsi su un volo che dalla Mauritania lo porta direttamente in Tunisia. Da lì, a bordo di una macchina, di cui non riesce a ricordare modello, colore e qualunque altro tipo di dettaglio, raggiunge la Libia dopo un giorno e una notte di viaggio sullo sterrato. Arriva a Zuara, meta intermedia del suo viaggio, spendendo in totale, la modica cifra di 400 euro. La città portuale libanese è divenuta famosa come la base di partenza per il mondo dei sogni che sulla targhetta riportava la scritta “Italia”. Lì, è la malavita organizzata locale a fare la voce grossa, con la compiacenza della Polizia e della Guardia costiera. Organizzare le cosiddette spedizioni della speranza è divenuto uno dei business più redditizi del nuovo millennio. Mohammed piega le gambe e chiude gli occhi. Sembra accusare la fatica e gli lasciamo qualche secondo di tregua. Hassan gli passa dell’acqua e lui beve con calma, ringraziando con un cenno della mano. Sembra addormentarsi, ma poi riprende vigore. Spalanca gli occhi, apre la bocca, muove le labbra ma non dice nulla, come una persona afona. Poi mostra un’espressione interrogativa e disorientata. Mentre Hassan mi chiede se è il caso di chiamare il dottore e interrompere l’intervista, Mohammed gli afferra la mano, con un gesto risoluto. – Andiamo avanti, credo che se la senta. E poi, forse, non vuole restare solo. Almeno per adesso. – * * * Riprendiamo il flo del discorso e scopriamo che a Zuara ci sono centinaia di zodiaci, ovvero imbarcazioni simili ai gommoni. Simili e non uguali perché costruiti senza rispettare minimi criteri di sicurezza, rabberciati praticamente ovunque con vero e proprio nastro adesivo. Per i mercanti della morte, la sola cosa che conta è che galleggino all’atto della partenza. Il resto, manutenzione e progettazione, diventano un pericoloso dettaglio, proprio come l’approdo a destinazione. Mohammed confessa di aver pagato 1600 euro per avere il privilegio di mettere piede sullo zodiaco o comunque sul presunto gommone che defnire tale è davvero un’eresia. Ne parla sgranando gli occhi, ripetendo che le condizioni dello scafo erano davvero precarie e salpare in mare aperto a bordo di quell’imbarcazione era una pazzia assoluta. Lo scafista però se ne infischia e rassicura tutti gli occupanti, salpando verso Lampedusa. Sono poco meno di 200 le miglia che li separano dall’Italia e al massimo in tre giorni di navigazione arriveranno a destinazione. Il mare è agitato e il vento sembra crescere ora dopo ora. Mohammed lo ribadisce più volte, ma lo scafista decide di proseguire lo stesso. Ormai l’affare è stato concluso e la missione va portata avanti. È la logica del business e, per lo scafista, gli affari sono affari. 46 PERSONE SULLO “ZODIACO” CHE NE PORTEREBBE SOLO 10 Mohammed narra che sono in 46 persone sullo zodiaco lungo circa di 8 metri, a fronte di una capienza media di 10, al massimo 15 persone. A bordo vi sono anche 125 litri di liquidi potabili tra acqua e succhi di frutta, la provvista standard per viaggi che prevedono una navigazione tra i 3 e i 4 giorni, in base alle condizioni climatiche del Mediterraneo. Lo scafista, vero business man della spedizione, colui che avrà il maggiore profitto della gita tra la Libia e l’Italia, si avvale di una bussola inserita in un secchio di acqua per far si che funzioni al meglio, senza essere infuenzata dal rollio dello scafo. In tasca conserva un telefonino satellitare munito di navigatore a cui ricorrere in caso di smarrimento della rotta. Prendo nota e mi soffermo ad ascoltare Hassan che traduce in maniera certosina. Ragiono come sia incredibile, assolutamente folle, che la tecnologia degli strumenti di viaggio dello sciacallo travestito da scafista siano infinitamente più moderni ed efficienti dell’imbarcazione che lo ospitava. In qualunque altra situazione, sarebbe stato esattamente il contrario, ma lì purtroppo non ci troviamo sul pianeta della normalità ma nell’emisfero di Lampedusa, nei mari solcati da pirati di anime, esseri senza scrupoli che vendono e comprano la vita per scambiarla con la morte. Mohammed si ritrova quindi affiancato a 45 compagni di viaggio, tutti insieme appassionatamente a bordo di uno zodiaco, per completare uno sbarco in piena regola, secondo i dettami del perfetto sbarco, volume prossimamente in edicola, edito da anonimi (nemmeno troppo) mercanti della morte. Solo che di clandestino lo sbarco ha ormai solo la nomea e la fama, dato che una troupe di Sky, detentrice dei diritti televisivi dell’atteso evento da rubrica fissa di ogni Tg, è pronta, 24 ore su 24, a filmare ogni istante dell’approdo sulla banchina della speranza. Si sfora l’assurdità, Anzi, la si coglie a piene mani come l’acqua di un torrente. Qualcuno sta giocando con la vita della gente, sfidando apertamente il destino e ogni credo in qualunque Dio, divinità o essere supremo, infischiandosene del valore stesso della vita. Quella altrui, ma inconsciamente, anche della propria. L’assenza della coscienza umana, che dilata il vuoto del non pensare, si ripete ancora una volta. LA CARRETTA SI SFASCIA AGGRAPPATO A UNA TAVOLA DI LEGNO Dopo due giorni interi di navigazione, accade l’irreparabile. Il gommone, come ampiamente prevedibile, cede strutturalmente. Il povero e debole nastro, resistente come la sabbia di un castello in riva al mare, non riesce più a mantenere assemblato quella specie di scafo. Il mare mosso e il vento hanno la meglio, sfaldando prua, chiglia e i bordi laterali. Succede l’irreparabile. Mohammed si aggrappa alla tavola di legno che funge da base rigida e di appoggio dello zodiaco. Lo stesso fanno altri 3 clandestini, un ragazzo della Mauritania e due egiziani, tra cui c’è suo cugino. I quattro riescono a salvare la pelle anche se la morte sembra essere lì ad osservarli, qualche metro sopra le acque, con espressione beffarda. Gli altri 42 occupanti dello zodiaco vengono inghiottiti dal mediterraneo mosso e incazzato come a volte sa essere. Mohammed si mette a parlare in maniera più febile, senza però mollare la presa sui quei terribili ricordi. Non ricorda con esattezza quando, ma sta di fatto che a un certo punto lui si addormenta o perde coscienza, o entrambe le cose allo stesso tempo. Resta per ore in uno stato di assoluto torpore fisico e psicologico. L’unica cosa che sa con certezza di aver fatto è quella di aver tenuto le mani strette attorno alla tavola di legno, la sua unica ancora di salvezza, la sola speranza di rimanere legato alla vita. Quando riprende i sensi e il contatto con la realtà, si rende conto che è ancora vivo. Si guarda attorno, ma vede che i suoi tre compagni di viaggio non ci sono più. È rimasto solo a lottare contro la morte e sente le forze mancare, secondo dopo secondo. * * * Mohammed distoglie lo sguardo da Hassan e fissa il muro, oltre le mie spalle. Forse ha smarrito la voglia di aggiungere altri dettagli. Sembra incredulo, come se stia vedendo cose che noi non possiamo nemmeno intuire. Credo che i suoi occhi stiano rivivendo ciò che è stato e che, chissà, sarebbe stato per sempre parte di lui, nei piccoli ritagli della sua quotidianità. Mohammed resta dunque solo a lottare contro la natura e la stanchezza del suo corpo. Non sa dire per quanto perché gli è impossibile quantifcare l’arco temporale. Senza provviste e disidratato, perde completamente la cognizione spazio/tempo. Si ritrova a combattere contro un nemico all’apparenza molto più forte e armato di lui. Sembra una battaglia persa mentre il tempo, ormai ritmato solo dalla luce del sole e della luna, perde ogni riferimento logico. DA DISPERSO A UNICO SUPERSTITE RIPESCATO COME UN RELITTO All’alba del 22 agosto, il peschereccio Ofelia, di rientro dalla pesca della notte, quando si trova a 5 o 6 miglia al largo del porto di Lampedusa, lo recupera casualmente in mare. All’inizio viene scambiato per la carcassa di un pesce enorme, poi per un bidone e poi persino per l’ammasso di scarti di qualche nave. Alla fine, viene ripescato proprio come un pesce e riportato alla vita. Ecco perché Mohammed si trova qui di fronte a me e Hassan a raccontare la sua storia. Una storia che ha dell’incredibile, con un alone di impossibile, ma che dimostra che a volte l’impossibile non esiste. * * * Gli accarezzo un braccio mentre si addormenta, questa volta sul serio. Esco dallo studio medico, in cerca di una boccata d’aria. Nel corridoio incrocio il dottore e lo rassicuro che per quel giorno non avremmo più disturbato il suo paziente. Mi assesta una pacca sulla spalla e mi avvio verso l’uscita. Ho bisogno di qualche attimo di solitudine prima di tornare in ufficio e inviare la mia relazione a Roma. Scelgo un caffé lungo alla macchinetta e attendo l’erogazione. Mi sento felice. Sì. Mi riscopro felice, incredibilmente felice… Felice per aver conosciuto Mohammed. Felice di aver potuto parlargli e di aver ascoltato la sua storia, di essere stato testimone di un piccolo miracolo. Felice di aver scrutato i suoi occhi. Felice di aver intravisto una traccia del senso della vita.

    Il mio servizio davanti al mare di Lampedusa (MA.LO.) Fui mandato in missione a Lampedusa nell’agosto del 2007, in piena emergenza sbarchi. In quell’estate approdavano sull’isola una media di cinquecento persone al giorno. L’arrivo di massa era favorito dalle favorevoli condizioni di navigabilità del mare, al punto che le improvvisate imbarcazioni salpate dalle coste tunisine impiegavano solo poche ore per approdare sulle coste di Lampedusa. All’interno del Centro Accoglienza Temporanea di primo Soccorso, andai a far parte del distaccamento dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Agrigento, composto da poliziotti aggregati da svariate questure italiane. Il nostro compito era identifcare gli sbarcati e approntare il loro successivo trasferimento presso i centri accoglienza presenti sul territorio nazionale. Operavamo in due squadre ma di fatto si lavorava a tempo pieno. Eravamo reperibili 24 ore su 24, cellulare sempre acceso, notti comprese. Gli arrivi delle imbarcazioni erano ininterrotti e l’emergenza andava trattata in tempo reale. Impossibile rinviare al giorno successivo la trattazione di ogni singolo sbarco. La chiamata nel cuore della notte era praticamente una regola non scritta, così come il lavoro straordinario. La procedura di accoglienza era ormai collaudata, figlia di un protocollo operativo ben delineato. Una volta che l’imbarcazione dei clandestini veniva intercettata dalle pattuglie della Guardia di Finanza o della Guardia Costiera e quindi condotta in porto, gli immigrati venivano fatti sbarcare sul molo Favarolo, un piccolo attracco che diventerà, suo malgrado, celebre in tutto il mondo. Gli operatori della Croce Rossa Italiana e medici fornivano loro vestiti e viveri, insieme alla prima assistenza medica, volta a salvaguardarne l’incolumità. In seguito venivano accompagnati presso il centro accoglienza e sottoposti a un’ulteriore visita medica per accertare l’eventuale presenza di malattie contagiose. Coloro che erano affetti da scabbia (la più diffusa delle patologie riscontrate) venivano separati dal resto del gruppo e messi in quarantena, in attesa che la patologia scemasse e non fosse più infettiva al semplice sfregamento o contatto fisico. Gli altri invece, giudicati idonei, passavano immediatamente alla fase dell’accertamento dell’identità. La priorità era riservata a donne e bambini e ad affiancare noi operatori dell’Ufficio immigrazione c’era un mediatore culturale che fungeva anche da traduttore. Al termine dei colloqui, si redigeva una scheda completa per ogni sbarco che veniva inviata in tempo reale agli uffici romani del Ministero degli Interni. Nell’informativa si metteva in risalto la nazionalità presunta e accertata di ogni persona e soprattutto gli elementi utili all’individuazione del possibile scafista e degli eventuali complici. Prima di essere condotti nelle loro alloggi, gli sbarcati venivano sottoposti ai rilievi fotosegnaletici a cura dei colleghi della Polizia scientifca. L’esito della comparazione delle impronte nella banca dati avrebbe potuto confermare o smentire le generalità dichiarate, tracciato la loro presenza in Italia e rivelato precedenti censimenti sul territorio nazionale. Le ore successive erano dedicate all’organizzazione dei trasferimenti nei centri di accoglienza. Era nostro preciso compito suddividere gli sbarcati in base a parametri ben distinti, in modo per garantire il massimo rispetto di usi e costumi ed evitare possibili contrasti etnici. Fondamentali erano appunto l’etnia, la religione, il sesso e i legami familiari. In base ai gruppi formati, si creavano liste di viaggio che si organizzavano mediante l’utilizzo di navi e aerei. In totale restai a Lampedusa quasi due mesi, raccogliendo emozioni e ricordi a piene mani: un viaggio d’andata a dir poco avventuroso e “ballerino”, culminato con la consegna della valigia solo dopo tre giorni dal mio arrivo, causa tormentati scioperi aeroportuali; volti ed espressioni figlie della sofferenza autentica, che ora sono in grado di distinguere da quella artefatta che talvolta incrocio nel mio lavoro; dimostrazioni di solidarietà cristallina da parte di un esercito di operatori, che spesso si spogliavano delle vesti ufficiali per vestire quelle di semplici persone solidali; il mare così azzurro da sembrare surreale e incantato, come se qualcuno lo avesse appena dipinto su tela; il cielo intenso e sempre pronto a fare da specchio alle acque del Mediterraneo; i profumi di salsedine e Fior di tigre. A Lampedusa ho assistito a lezioni di vita che sono riuscito a metabolizzare solo tempo dopo. Quando ci ripenso, realizzo che probabilmente una parte di me è rimasta su quel meraviglioso lembo abbracciato dal mare. Per sempre.

    pubblicità