Nanda Pivano, da Pavese a Hemingway, Faulkner, Kerouac… e il sogno americano

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    DIECI ANNI DALLA MORTE – 30 agosto 2019

    Nanda Pivano, da Pavese a Hemingway, Faulkner,  Kerouac… e il sogno americano

    di Aristea Canini

    Era la sera del 18 agosto 2009, a Milano faceva caldo, tanto, lei, Nanda Pivano era ricoverata da qualche tempo in una casa di cura, la Clinica don Leone Porta, circondata da mucchi di parole di carne e da amici che andavano a trovarla e bevevano dai suoi occhi che da tempo non vedevano più, quel sogno di libertà che non aveva bisogno di pupille ma aveva avuto bisogno del suo cuore. Quel cuore che aveva spalancato su un mondo allora sconosciuto in Italia. Nanda e l’Antologia di Spoon River, Nanda e Cesare Pavese, suo insegnante e innamorato pazzo di lei, tanto che le chiese due volte di sposarla, Nanda ed Hemingway, Nanda e la Beat Generation, Nanda e Jack Kerouac, quel viaggio on the road che non è mai finito, anzi.

    Nanda e Fabrizio de André, Nanda e Bret Easton Ellis, Nanda e Bob Dylan, ma anche Nanda e i ragazzi col sacco a pelo che le suonavano il campanello nella sua casa in Via Senato per farle leggere versi di sogni. 

    Nanda e le parole di carne. Quelle che ci ha portato, tradotto, accarezzato, buttate addosso, quella speranza, quel sogno, quel viaggio, quel puzzle di parole che ogni volta danno un risultato diverso, un’emozione diversa. 

    Dieci anni dalla morte, un conto inutile per la letteratura, per la poesia, per la musica che Nanda considerava eterna. Nanda aveva 92 anni ma anche lì, l’età non conta, non esiste, la guardavi seduta su uno sgabello ad ascoltare Jovanotti imbastire versi sopra una chitarra o mandare a quel paese in modo garbato ma deciso chi le faceva girare le scatole. 

    Nata a Genova, quella Genova di Fabrizio de Andrè, dei vicoli, delle mura spesse di profumo di vino e poesia. Poi Torino dove ha come compagno di classe Primo Levi e come insegnante di italiano Cesare Pavese. Nanda e Primo Levi non vengono ammessi agli orali dell’esame di maturità perché i loro temi per lo scritto sono giudicati ‘non idonei’. Ma a Nanda non importa. Lei cerca altro, annusa altro. Pavese le porta 4 libri, uno è Addio alle armi di Hemingway che Nanda tradusse clandestinamente, un altro è l’Antologia di Spoon River, c’è anche Foglie d’Erba di Walt Whitman: la sua vita cambia. E cambia anche la vita della letteratura e della poesia in Italia. 

    Si laurea prima in Lettere e poi in Filosofia, ma per lei la parola è altro, non quella ferma su carta, si deve muovere, un miscuglio di vibrazioni che si fanno poesia e diventano carne. Traduce in italiano l’Antologia di Spoon River guidata da Cesare Pavese, che si innamora di lei, ma Nanda ha la testa e il cuore altrove e non ha mezze misure, se non ti piace te lo dice in faccia. Nanda era una ragazza col caschetto, gli occhi curiosi e un lessico formidabile, incantava ma poi se ne andava, cercava altro. 

    Lei che rischia l’arresto per la traduzione di Addio alle armi (in prigione ci finisce il fratello di Nanda, per un errore di intestazione). Lei che sposa l’architetto Ettore Sottsass e che si trasferisce a Milano, un rapporto strano il loro, un rapporto che finisce in un divorzio ma in un rispetto e in un’amicizia che non si spegne più. 

    Nel 1956 il suo primo viaggio negli Stati Uniti, il sogno americano allora era ancora solo uno spiffero di vento che si annusava in qualche brano musicale ma stava per esplodere e la miccia in Italia si chiamava Nanda Pivano. Tradusse Francis Scott Fitzegarld, Hemingway, Faulkner e lì dietro l’angolo, ci stavano gli anni ’60, Woodstock, la contestazione giovanile, la ricerca di testi che diventassero classici per il cuore. Ci stava Jack Kerouac con il suo ‘On the road’, “Sulla strada”, manifesto di un’intera generazione, ancora adesso uno dei libri più venduti al mondo, portato in Italia da Nanda, tradotto, diffuso. Kerouac non era certo quello che quasi tutti pensano, Kerouac era timido, quasi spaventato da questo mondo che stava diventando troppo perfetto e di plastica, Kerouac cercava altro, e cercò Nanda l’unica volta che venne in Italia e Nanda ha raccontato quel viaggio in un brano che probabilmente ora è difficile recuperare: “Il 28 settembre del 1966 – scrive Nanda – Kerouac venne per 76 ore, perché aveva bisogno di 800 dollari per pagare un semestre d’affitto e con gli altri 200 del compenso pattuito dall’editore avrebbe pagato almeno in parte, l’ospedale per la madre che aveva avuto una trombosi. In aereo bevve un po’ di whisky che gli fece subito male, un funzionario editoriale che lo scortava e di cui non ho mai saputo il nome gli disse che stava ‘making an ass of himself’ stava facendo proprio una figuraccia. Appena arrivato mi chiamò, mi disse che era disperato, di andare subito da lui, lo raggiunsi all’Hotel Cavour dopo pochi minuti, nell’imbarazzo dei funzionari editoriali incaricati di evitare la mia presenza. Era in piena paranoia, mi disse che gli avevano fatto un’iniezione, si sentiva la lingua impastata di morfina, voleva tornare a casa, voleva sciogliere l’impegno. Mi dissero prima che era un’iniezione sedativa, poi che era un’iniezione di glucosio, ‘Take me away from here’, continuava a ripetermi al telefono Kerouac, già sotto l’effetto dell’iniezione, voleva venire a casa mia, dove diceva nessuno gli avrebbe fatto altre iniezioni”. 

    Il racconto prosegue e traccia un quadro di Kerouac impaurito, libero, selvaggio, divorato dagli editori e dalla popolarità, che cercava in Nanda un guscio, si fidava solo di lei. Quel giorno finì male, nell’unica intervista tv si presentò ubriaco. Voleva solo Nanda. La Beat Generation era arrivata anche in Italia. L’aveva portata lei. Da William Burroughs a Gregory Corso e il suo Jukebox all’idrogeno, manifesto della poesia libera di quegli anni. Ma anche Henry Miller e Charles Bukowski. Poesia & letteratura & musica, hanno convissuto insieme con Nanda. Legatissima a Fabrizio De André che prese spunto per il suo album e per i suoi testi ‘Non al denaro, non all’amore, né al cielo’, dalle traduzioni di Nanda di Spoon River. 

    Ma da lei sono passati tutti e per passare intendo respirare, attingere, esplodere di note e parole. Patti Smith si esibì per lei su un tappeto rosso. Nanda fu la prima a scrivere in Italia un articolo su Bob Dylan, era il 1966. Nanda era fiuto, talento, istinto. Nanda cercava libertà ovunque, anticonformista per dna, non beveva, non fumava e si trovava un sacco di volte in mezzo a scrittori, cantanti, poeti ubriachi che la prendevano in giro, ma come? Lei che trasmette libertà non aveva mai avuto la voglia di alzare il gomito una volta? Hemingway si incazzava, la prendeva in giro, le versava whisky che lei regolarmente lasciava nel bicchiere. Hemingway portava Nanda ovunque, a Cuba, a Cortina, dappertutto, lui che cercava quel qualcosa che non trovava e lei che trovava quel qualcosa invece nelle parole. Dopo che venne assegnato a Hemingway il Nobel nel 1956, lui, sua moglie Mary e Nanda andarono a Cuba. “Eravamo a Cuba, nella minuscola tenuta – scrive Nanda – troppo minuscola forse per uno che aveva insegnato a scrivere a mezzo secolo di scrittori, Hemingway aveva appena ricevuto il Nobel e tutti andavano per vederlo, mi disse ‘la gente crede che la mia casa sia una specie di monumento pubblico e che io sia l’elefante nello zoo, la domenica. L’ultimo libro che ho scritto è molto triste e parla di un vecchio colonnello. Tutti cercano di identificarmi con il vecchio colonnello perché ho fatto tante guerre, e mi fanno girare le scatole. Se si riesce a immaginare abbastanza bene una cosa, tutti credono che sia vera. C’è sempre qualcosa di vero anche nelle cose immaginate. Allora nascono i guai per le persone alle quali si vuole bene”. 

    Ecco, Nanda riusciva a tirare fuori dalle persone quello che andava oltre. Parole & carne si fondevano e usciva la meraviglia. Quello stupore che fa della musica, della letteratura, della poesia l’eternità. Quell’eternità che anche a 92 anni cercava nello sguardo dei giovani: Mi guardano smarriti, aspettando il blue print, un modello di comportamento che io non posso dare. E ogni volta dico loro la stessa cosa: tocca a voi mostrare la strada dell’integrità e dell’onestà, sperando che gli adulti la seguano. Sono i giovani che devono riportare la realtà all’innocenza originaria”.

    LA STORIA

    Cesare Pavese & Nanda Pivano: 

    le due proposte di matrimonio rifiutate

    La letteratura, la ribellione, il suicidio e quelle lettere mai pubblicate

    (Aristea Canini) Cesare Pavese & Fernanda Pivano. Il professore e l’allieva. All’inizio. Per finire poi in un rapporto completamente diverso. Che per Cesare Pavese era diventato amore. 

    Liceo D’Azeglio, Nanda era una studentessa, Cesare Pavese un supplente d’italiano. L’anno è il 1935. Pavese aveva carisma. Una storia d’amore, di parole, di lettere, di diari, di tanti no e pochi sì quella tra Cesare Pavese e Fernanda Pivano. Quando si ritrovarono nel 1938, Pavese sentì esplodere il suo amore per Nanda, un amore che trovò spazio quasi platonicamente, una passione che si trasformò in amore per la letteratura. 

    Ma Pavese voleva anche altro. Voleva Nanda per sempre. A lei dedicherà tre poesie: ‘Mattino’, ‘Notturno’ ‘Estate’ e anche e soprattutto per questo che Nanda, appena morto Cesare Pavese, non diede l’autorizzazione a Einaudi di pubblicarle, anche se in quel periodo sarebbe servito per lanciarla. Ma Nanda non voleva riflettori su quell’amore naufragato. Nanda che rifiutò Cesare Pavese perché innamorata dell’architetto Ettore Sottsass (con cui poi si sposò, un rapporto burrascoso e intenso che si concluse con la separazione). 

    Cesare Pavese era innamorato di quella ragazza diversa da qualsiasi altra ragazza, con quella voglia pazza di letteratura, quella passione infinita per il sogno e le parole.  

    Pavese era nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un paese in provincia di Cuneo. Famiglia agiata ma vita non certo facile, il padre muore presto per un cancro al cervello, la madre è molto malata. Lui ha una brillante carriera universitaria ma ‘dentro’ sta male, e il suo dolore lo esprime nelle sue prime poesie. A differenza dei suoi amici è molto timido e si esprime meglio con le poesie, è poco più di un adolescente quando si innamora di una ballerina: hanno un appuntamento ma lei non si presenta, lui l’aspetta per ore sotto la pioggia, si ammala, prende la pleurite e rimane a letto per tre mesi. Un episodio che trova spazio anni dopo nella canzone “Alice” di Francesco De Gregori Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina. E rimane lì, a bagnarsi ancora un po’, e il tram di mezzanotte se ne va”.

    Il maestro e l’alunna

    Nel 1934/35 il ventiseienne Pavese è nominato supplente di italiano al Liceo D’Azeglio di Torino, lui che si è laureato con una tesi su Walt Whitman, lui che mastica inglese e lavora come traduttore. Tra i banchi del liceo c’è Fernanda Pivano che racconta quel primo incontro col quel professore ‘giovane giovane’ e “lo straordinario privilegio” di ascoltare Pavese mentre “leggeva Dante o Guido Guinizelli e li rendeva chiari come la luce del sole”, ricordando come avrebbe “passato ore ad ascoltarlo, con una voce che avrebbe fatto morire d’invidia qualsiasi attore. Somigliava vagamente a quella di Hemingway”. 

    Nel 1935 cambia la vita di Pavese: finisce in carcere, l’accusa è di antifascismo. 

    Dopo il carcere finisce al confino per tre anni. Pavese scrive ‘Il carcere’ e racconta: “Seduto davanti al sole della soglia ascoltava la sua libertà, parendogli di uscire ogni mattina dal carcere”. 

    Quando torna, Pavese incontra di nuovo Fernanda Pivano, è il 1938. Nanda è un’universitaria iscritta alla facoltà di Lettere che frequenta anche il Conservatorio e il supplente del suo ex liceo, questa volta, si innamora perdutamente di lei. La loro relazione si nutre delle pagine dei romanzi e delle poesie che si scambiano. Pavese le suggerisce le opere di Ernest Hemingway, Walt Whitman, Sherwood Anderson ed Edgar Lee Masters, che tra le mani della Pivano cambiano la storia della letteratura in Italia. Nanda mostra i muscoli, anche del cuore e convince Mondadori a pubblicare il romanzo “Sulla Strada” di Jack Kerouac, firma lei la prefazione. ‘Sulla strada’ a distanza di decenni è ancora uno dei libri più venduti nel mondo e in Italia. Cesare Pavese innamorato di Nanda, alterna desiderio a toni un po’ troppo paternalistici, Nanda in quegli anni cerca altro, è nel pieno della sua rivoluzione culturale che condizionò poi tutta la letteratura. “Faccia sì che il primo incontro avvenga tra noi due soli, perché vorrò abbracciarla e baciarla. Ho deciso”, scrive Pavese nel gennaio del 1943. Nanda non ricambia. “Pavese cercava di farmi diventare un’intellettuale” scrive Nanda nei suoi Diari. Eppure, è proprio da questo affetto così timido che nasce una delle lettere più belle che il poeta le ha inviato, un monito ai giovani di tutte le epoche: ”Cara Fern, la Sua lettera mi ha molto commosso e se potessi prenderei subito il treno per provarle che non è vero che la circondi il gelo e l’ostilità. Ma non capisco perché si trovi tanto male proprio adesso che sa di poter (…) mantenersi. Non ha sempre aspirato all’indipendenza? A meno che Le succeda come a tutti: una volta ottenutala, non sa più che farne. Si ritorna cioè a quanto le ho sempre consigliato: si faccia una vita interiore – di studio, di affetti, d’interessi umani che non siano soltanto di ‘arrivare’, ma di ‘essere’ – e vedrà che la vita avrà un significato (…) È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene”.

    ESTATE La poesia

    Cesare Pavese

    C’è un giardino chiaro, fra mura basse,

    di erba secca e di luce, che cuoce adagio

    la sua terra. È una luce che sa di mare.

    Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli

    e ne scuoti il ricordo.

    […]

    Ascolti.

    Le parole che ascolti ti toccano appena.

    Hai nel viso calmo un pensiero chiaro

    che ti finge alle spalle la luce del mare.

    Hai nel viso un silenzio che preme il cuore

    con un tonfo, e ne stilla una pena antica

    come il succo dei frutti caduti allora.

     

    Proposte di matrimonio

    Pavese ha già fatto le sue due proposte di matrimonio a Nanda, una il 26 luglio del 1940 e una il 10 luglio 1945, due date che farà stampare sul frontespizio del suo romanzo Ferie d’agosto con una croce a fianco, per evidenziare il rifiuto. A lei dedica appunto anche le tre poesie Mattino, Notturno, ed Estate, e questo nonostante sia consapevole che Nanda è innamorata da anni dell’architetto Ettore Sottsass che sposerà nel 1949, trasferendosi a Milano. 

    Mentre Nanda inizia una nuova vita lontano dal suo caro amico, lo scrittore piemontese diventa sempre più inquieto e stanco, anche e soprattutto a causa di una vita privata insoddisfacente. Dopo Fernanda, il suo desiderio di amore si scontra con altre due donne: Bianca Garuffi e Constance Dowling. Il 17 agosto 1950, Pavese annota, sull’ultima pagina delle sue memorie, di avere la consapevolezza di essere diventato un “re” nel suo mestiere, ma aggiunge che dal marzo di quello stesso anno è assalito “dall’inquieta angoscia” e che non riesce a liberarsi da questo tormento: “Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo manca la carne, manca il sangue, manca la vita”. 

    Il 27 agosto 1950 Pavese si suicida con una massiccia dose di sonniferi. “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”, aveva scritto nel suo diario Il mestiere di vivere.

     Ci sono parecchie lettere tra Pavese e la Pivano ma dopo la morte di Pavese, Nanda negò a Einaudi il permesso di pubblicare quelle più intime, un segreto che rimane tra Nanda e Cesare. Che va oltre la morte. Va oltre tutto. 

    «Quella notte Hemingway mi fece leggere

    il manoscritto di “Di là dal fiume e tra gli alberi”»

    di Fernanda Pivano

    Hemingway aveva mille modi di bloccare la mia attenzione con quel suo modo di essere ‘fragile come una meringa’ (come disse una sua amica) e forte come un atleta, sempre bisognoso di protezione e insieme pronto a proteggere. 

    Una notte, prima dell’incidente d’Africa, mi aveva telefonato da Venezia, mi aveva detto di andare subito da lui, che doveva parlarmi, ma subito, immediatamente. Era chiaro che non serviva chiedergli perché, gli domandai soltanto se era successo qualcosa a Mary. Sì, Mary si era rotta una caviglia, era su a Cortina con l’ingessatura, ma io dovevo andare da lui perché doveva parlarmi, subito, immediatamente. Non c’era ancora l’autostrada e i treni impiegavano un’eternità: arrivai all’alba e lo trovai nella hall del Gritti ad aspettarmi. Dopo le solite operazioni del breakfast e dei dialoghi con barman, maître e portiere, andammo da Harry’s, dove c’erano i soliti amici e i soliti ficcanaso; poi feci da interprete-sentinella a due intervistatori, dovetti servire il tè a due signore e telefonare una decina di volte a Mary per raccomandarle di non stancarsi. Nessuno, né lui, né Mary, né io, parlò di quella mia precipitosa venuta a Venezia. 

    Verso sera Hemingway diventò nervoso. Cenammo da Harry’s, poi andammo da Ciro dove Hemingway doveva incontrarsi con Aspasia di Grecia (che forse, come mi scrisse una lettrice, non era di Grecia ma veniva presentata così da Hemingway senza protestare) e altri amici. Diventò sempre più nervoso, si mise a bere troppo champagne. 

    Alle tre di notte tornammo in albergo. Lo salutai, gli dissi che avevo un treno per tornare a casa, avevo concluso che forse mi aveva chiamata soltanto perché aveva paura di essere solo; l’unica paura che abbia mai conosciuto. Mi guardò sbalordito, un po’ offeso. Mi chiese se non ricordavo che doveva parlarmi, e dunque che cosa ero venuta a fare se poi non volevo ascoltarlo e comunque potevo certo andarmene se non avevo voglia di restare. 

    Aveva gli occhi spalancati e le mani cacciate in tasca fino a forzare la cinghia dei calzoni come faceva nei momenti di crisi o quando gli giravano le scatole. Si avviò verso l’ascensore. Naturalmente lo seguii e un fattorino ci accompagnò nel suo appartamento dicendogli sottovoce in corridoio che ‘la signorina’ aveva telefonato per avvertire che non poteva venire, una notizia che lo ammutolì per qualche minuto e su cui non fece commenti neanche più tardi. 

    Nel salottino cominciarono le solite operazioni per le telefonate arrivate durante la sua assenza e quelle per la scelta di un certo champagne, e di un certo secchiello, e di un certo tipo di ghiaccio. Poi cominciarono i suoi andirivieni tra il salotto e la camera da letto, le mani erano cosi tese nelle tasche dei calzoni che mi aspettavo di veder saltare la cinghia da un momento all’altro. 

    Erano passate quasi ventiquattr’ore dal mio arrivo quando mi guardò fisso con quei suoi occhi pieni di dolore e mi buttò sulle ginocchia un manoscritto; le pinze che lo tenevano erano troppo piccole e un fascio di fogli cadde per terra. 

    Mi disse (chissà se era vero) che era il suo ultimo romanzo, non l’aveva ancora visto nessuno tranne Mary, voleva che lo leggessi e gli dicessi che cosa ne pensavo, mi aveva chiamata perché sapeva che gli avrei detto la verità. Lo faceva con gli amici più fidati, ma anche se il mio non era un privilegio esclusivo mi mozzò il fiato; per qualche minuto non riuscii a leggere, poi cercai di convincermi che era soltanto la stanchezza a farmi tremare le mani. 

    Il sole era già alto quando lessi l’ultima pagina. Hemingway era rimasto quasi immobile nella poltrona alle mie spalle; aveva vuotato tutte le bottiglie di champagne e nei secchielli il ghiaccio era diventato acqua grigiastra. Lo guardai senza parlare, capì, come capiva spesso senza bisogno di parole. Mi disse che ora dovevo correggergli l’ortografia delle frasi italiane e poi se volevo potevo tornare a casa. Mi disse anche ‘thank you, daughter’. 

    Andò in camera e dal tonfo che sentii era chiaro che si era buttato sul letto. Uscii in punta di piedi dal salottino portando con me la pagina del titolo: mi pareva di avere bisogno di qualcosa ‘per ricordare’. 

    Anni dopo, quando seppi del suo corpo abbattuto da quel colpo di fucile, capii che in realtà non c’era da ricordare proprio niente altro che quel tonfo affranto e quegli occhi dolenti. Di quel tonfo e di quegli occhi dolenti parlai con Mary anni dopo, quando Mary mi raccontò che due ragazze avevano litigato pretendendo entrambe di essere il modello per la protagonista del libro e fra tutti i possibili giudici avevano scelto proprio lei, Mary, per decidere chi avesse ragione. ‘Dopo tutto è un romanzo, non una cronaca’, ripeteva seria, con gli occhi bendati di azzurro sotto i capelli biondissimi a spazzola ‘E poi, venirlo a chiedere a me. Ma ti pare?”. 

    Eravamo a Cuba, nella minuscola tenuta troppo minuscola forse per uno che aveva insegnato a scrivere a mezzo secolo di scrittori, Hemingway aveva appena ricevuto il Nobel e stava girando il film tratto da The Old Man and the Sea, con questa scusa viveva nella Pilar sull’oceano aperto, perché, mi aveva scritto, tutti andavano a guardarlo ‘la gente crede che la mia casa sia una specie di monumento pubblico e che io sia l’elefante nello zoo, la domenica’. 

    Del romanzo di Venezia non parlava, come non parlava mai di nessuno dei suoi libri, soltanto una volta mi disse che i critici non l’avevano capito, ma dopo tutto non era colpa loro, loro non sapevano che il romanzo era solo un pezzo dell’ultima parte della trilogia, quella alla quale stava lavorando da vent’anni e che forse, diceva presago, nessuno avrebbe visto mai perché difficilmente sarebbe uscita postuma nella forma immaginata da lui. Anni prima mi aveva scritto: “L’ultimo libro è buono. Ma è molto triste e parla di un vecchio colonnello. Tutti cercano di identificarmi con il vecchio colonnello perché ho fatto tante guerre, e mi fanno girare le scatole. Se si riesce a immaginare abbastanza bene una cosa, tutti credono che sia vera. C’è sempre qualcosa di vero anche nelle cose immaginate. Allora nascono i guai per le persone alle quali si vuole bene”. 

    Invece parlava molto di Venezia e degli amici veneziani, i protagonisti del libro, perché li conoscevo anch’io e con me ritrovava il ritmo del lento ciacolare veneziano e la nostalgia di un tempo in cui il corpo gli pesava una decina di anni di meno. Era stato a lungo suo ospite il barone Gianfranco Ivancich, che aveva comprato una tenuta confinante con la sua e poi l’aveva rivenduta e durante le trattative era rimasto nella Finca cubana come un figlio adottivo; la sorella Adriana e la madre Dora avevano vissuto tre mesi nella stessa dependence, la ‘Casita’ in cui ora eravamo ospiti noi. 

    Con Hemingway ce ne stavamo al sole sul prato e parlavamo, di un barcaiolo e di sua moglie, o di un barman, o del conte Federico Kechler, che lo aveva assistito quando gli era venuta la risipola, o di quell’amico intenditore di vini e di anatre, o di Cipriani e dei suoi scampi, o di quelle splendide, inimitabili nobildonne veneziane, del matrimonio di una di loro con un attore del cinema, della raccolta di versi pubblicata da un’altra. 

     

    vIl ‘romanzo di Venezia’ non era ancora uscito in italiano, ma loro lo avevano tutti letto in inglese. Hemingway mi aveva scritto: “Cipriani, come pure il direttore del Gritti, mi ha scritto che il libro gli piace molto. Quasi tutti i miei amici lo hanno letto in inglese e gli amici veneziani che sono qui nostri ospiti dicono che non vedono impedimenti alla pubblicazione. Però devo avere la certezza di non danneggiare il guardiacaccia. Devo avere anche la certezza che sarai tu a tradurlo, prima di procedere”. 

    Seduti sui gradini all’ombra della porta parlavamo, parlavamo, parlavamo, con melanconia e un po’ di nostalgia, mentre Mary correva trafelata tra il prato e il telefono, sempre carica di posta che annunciava arrivi e partenze di amici da ogni parte del mondo…

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