(Dal numero del 4 ottobre 2024)
di Daniele Castelli
Caro Nonno, Giuseppe (Pino) Castelli, martedì 10 settembre ti abbiamo dato l’ultimo saluto, lasciandoci in un dolore che non riusciremo mai a compensare per tutto ciò che ci hai donato. Per questo ho voluto scrivere alcune righe, per ricordare e ricordarti. Non sapendo bene da dove iniziare, credo che il modo migliore sia cominciare da un dato di fatto. Mio nonno era l’ultimo reduce di Leffe della Seconda guerra mondiale. Un pezzo di storia di un tempo che sembra così lontano e distante dai giorni nostri ma che è necessario ricordare perché anche le nuove generazioni non perdano mai la cognizione di ciò che è stato il passato, per evitare che ciò si riproponga in futuro. Sembra ieri che da bambino ascoltavo la tua storia e la vivevo come la più grande avventura che mi fosse mai stata raccontata mentre oggi sono qui io a raccontarla, a metterla nero su bianco, affinchè non vada perduta. Era il 17 febbraio del 1944 e Pino, mio Nonno, non aveva ancora 19 anni: li avrebbe compiuti nel mese di marzo, il giorno 23. Fu chiamato come tanti altri giovani, a seguito del Bando Graziani per il reclutamento obbligatorio, nell’ultima classe di leva durante la Seconda guerra mondiale. Lasciò così il papà Alessandro, la mamma Maria, fratelli e sorelle, in uno sconforto reciproco e si apprestò ad affrontare il suo destino. Pino arrivò in caserma a Bergamo e qui scoprì l’amara destinazione: la Germania. In quegli stessi istanti venne a conoscenza del fatto che alcuni suoi compagni fossero appena fuggiti dal primo piano della caserma e, influenzato da quella notizia, decise di andarsene anche lui: con una rocambolesca fuga riuscì a fuggire dalla caserma gettandosi dal secondo piano. Nel cadere si ruppe un polso e si ritrovò con la schiena dolorante ma il pensiero della libertà era più forte di ogni male avvertito: scavalcò la recinzione e si diresse verso la stazione. Arrivò a casa in pessime condizioni e qui venne tenuto a letto dai familiari che gli curarono le ferite. Il peggio sembrava essere passato ma pochi giorni dopo si presentò un conto salato da pagare. I Carabinieri si presentarono alla porta di casa e avvertirono i genitori di Pino che se in paese si fosse saputo che il figlio fosse tornato a casa da disertore, avrebbero rischiato anche loro di ricevere delle rappresaglie. Pino ci teneva alla propria pelle ma ancora di più teneva a quella dei propri famigliari: non voleva che loro fossero minimamente coinvolti e decise di presentarsi in caserma volontariamente. Non fu l’unico: quel giorno altri quaranta, nelle sue stesse condizioni, si presentarono in caserma e, dopo quattro giorni, vennero mandati a Brescia per essere processati con l’accusa di diserzione. La paura era grande: pochi giorni prima, un decreto promulgato da Mussolini sanciva la pena di morte per i disertori. Pino si ritrovò in un’enorme stanza con i suoi compagni, ammanettati e in attesa del processo. L’accusa entrò nell’aula e chiese ad ognuno i motivi della fuga. Pino rispose prontamente. “Evitare la Germania!”. L’accusa finì velocemente il proprio lavoro e chiese le condanne: per Pino vennero chiesti 17 anni di carcere. Il giudice si ritirò per decidere e poi, rientrato in aula, chiamò uno ad uno i disertori. “Giuseppe Castelli, 12 anni di carcere”. 12 anni! Pino era spaesato: alla sua età, perdere 12 anni di vita significava perdere tutto. Dopo il processo vennero condotti in una piccola stanza: erano in quattordici, tutti stipati in quel bugigattolo, c’era chi piangeva, chi chiamava la mamma e chi invocava aiuto a Dio sulla loro sorte ed il loro futuro. Per tre giorni rimasero chiusi in quel minuscolo spazio fino a che un ufficiale si presentò alla porta. “Chi vuole fare la firma per il fronte volontario alzi la mano e potrà uscire di qua!”. Pino e altri sei alzarono la mano. Uscì dalla cella, fece una visita medica e gli fecero firmare una carta per l’arruolamento volontario: prima linea, con il battaglione della morte. Pino rientrò con i suoi compagni in cella e qui, gli altri che non avevano firmato, li attaccarono e li etichettarono come “traditori della patria” e “fascisti”. Pino intervenne alzando un dito verso una minuscola finestrella e indicò il cielo: per lui in quella cella non c’era vita, non c’era alcuna possibilità; invece, essere fuori da lì era l’unica speranza che avevano per poter tentare di nuovo a fuggire. Il giorno dopo anche l’altra metà dei compagni di stanza firmò per il fronte volontario e partirono tutti in direzione di Brescia. Presso la caserma Papa, Pino rimase per due mesi in attesa di una chiamata al fronte e poi, una sera, un ufficiale chiamò lui e altri quaranta. “Sveglia a mezzanotte, partenza a mezzanotte a mezza”. Le guardie, armate di mitra, li scortarono alla stazione e salirono su un carro bestiame. “Andremo verso il Brennero” pensò Pino “e poi in Germania…”. Pino voleva scappare, di nuovo ma non vedeva uno spiraglio di fuga. Era quasi rassegnato quando, arrivati a Milano, gli fecero cambiare treno per portarli a Monza. Pino e i suoi compagni erano straniti: non capivano il perché di quella scelta ma tirarono un sospiro di sollievo quando si ritrovarono in un’altra caserma e non sul fronte di battaglia. La caserma era situata a pochi chilometri da Monza e qui ricevettero le prime divise con le quali per alcune settimane fecero delle esercitazioni. Il 12 giugno del 1944 un ufficiale fece l’adunata in cortile. “Ragazzi, è venuto il vostro momento di combattere. Il nemico sta arrivando!”. Pino aveva tanti pensieri per la testa ma uno era più importante degli altri: l’ultima occasione di fuggire sarebbe potuta essere quella sera. In quella caserma conobbe un certo Carrara, di Albino e, siccome vi era la libera uscita, progettarono di sfruttare l’occasione per fuggire. I due si prepararono e al momento della libera uscita si presentarono al cancello. “Alt!”. Alcuni soldati tedeschi incrociarono i fucili e li bloccarono prima di uscire dalla caserma. “Niente libera uscita stasera!” gli dissero. Pino e Carrara si guardarono negli occhi e fecero dietrofront: ogni occasione era persa per sempre? I due decisero di incamminarsi lungo il perimetro della caserma e si misero ad osservare i muri: erano troppo alti per essere scavalcati e cominciarono a rassegnarsi all’idea di dover partire. “Cassino” gli aveva detto qualcuno “La destinazione sarà il Centro Italia per bloccare l’avanzata degli americani”. In quel vortice di pensieri, Carrara, lungo il perimetro, notò un piccolo rialzo. Ai due amici bastò uno sguardo. Si fiondarono in quel luogo e, attenti che nessuno li stesse controllando, limarono l’altezza del muro con quel rialzo e riuscirono ad andare oltre la cinta, atterrando in un campo di frumento. Libero, di nuovo. Pino era felice ma allo stesso tempo preoccupato: non era a Bergamo ma a Monza, lontano dal centro e dalla stazione, in piena campagna ed al buio. Dove andare? I due si incamminarono alla cieca e a un certo punto sentirono alcuni rumori e, dalla loro zona, riuscirono ad intravedere una strada asfaltata che tagliava i campi. Si precipitarono subito lì e una volta giunti sul posto si fecero notare dal primo mezzo che passava. Un camionista si fermò ma si mostrò restio a farli salire: aiutandoli, avrebbe rischiato di mettere a repentaglio anche la propria vita. Poi però, l’uomo, forse per la tenera età dei ragazzi che gli ricordò quella dei figli o dei fratelli, si mostrò di buon cuore e accettò di aiutarli: li avrebbe accompagnati a Bergamo, non in città ma fuori da essa per evitare controlli, e loro avrebbero viaggiato nascosti, nel retro del camion, sotto alcune pile di stracci. I due acconsentirono senza fiatare e si nascosero nel retro del veicolo. Dopo un viaggio difficile, fatto di paura e timore di essere scoperti, arrivarono al posto designato nelle prime ore del mattino e, salutato e ringraziato il camionista, presero la strada delle campagne fino ad arrivare ad una stazione del treno per raggiungere la Val Seriana. Giunsero ad Albino e Carrara convinse Pino a passare a casa sua per riposarsi e mangiare qualcosa. Pino avrebbe voluto raggiungere subito la sua famiglia ma accettò l’invito e, facendo attenzione e passando per strade secondarie, arrivarono a casa di Carrara per pranzo. A casa dell’amico vennero accolti dalla madre che corse al collo del figlio e poi abbracciò anche Pino: in quell’abbraccio rivide l’affetto di sua madre e dopo mesi si sentì finalmente come a casa. Il resto del giorno, Pino lo passò con la famiglia di Carrara e poi la mattina successiva, sul presto, venne svegliato e gli vennero date le indicazioni per poter arrivare a Gazzaniga senza passare da posti frequentati in cui avrebbe rischiato di essere visto e scoperto: Pino ringraziò e salutò la famiglia di Carrara e poi si fece accompagnare da lui per un pezzo di strada. Qui i due si salutarono senza sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui si sarebbero visti. In procinto di arrivare alla stazione di Gazzaniga, Pino realizzò che il rischio di prendere il treno fosse troppo alto e decise dunque di attraversare il Serio a nuoto e, arrivato dall’altra parte, si incamminò verso il monte Bue. Pino arrivò fino in cima al monte Bue: conosceva il proprietario di un’osteria il cui figlio era un suo amico. L’oste lo accolse con baci e abbracci come se fosse il figlio e gli disse che il suo ragazzo era stato portato in Germania: qui l’uomo lo fece riposare, lo rifocillò e lo fece nascondere per qualche giorno con la promessa di avvisare i suoi genitori del fatto che fosse sano e salvo. Per una settimana Pino si nascose ma poi la nostalgia della famiglia si fece sentire: voleva vedere i suoi fratelli ed abbracciare i suoi genitori. Era rischioso ma voleva vederli: almeno una volta. Così una sera, a sorpresa e senza farsi vedere da nessuno, Pino entrò in casa, attraversò le stanze ed arrivò in quella dei suoi genitori. Pino entrò in camera e suo padre era lì, seduto sul letto. “Tata” gli disse lui. Il padre girò il volto di scatto e con la voce rotta dall’emozione gli disse “Ciao eh”. Gli occhi di entrambi brillarono: Pino corse incontro al padre, i due si abbracciarono e scoppiarono a piangere. Ciò che mio nonno provò in quel momento non l’ha mai saputo spiegare, ma le sue lacrime, ogni volta che lo raccontava, valevano più di cento parole su cosa significasse per lui la famiglia. Dopo aver salutato ed abbracciato anche la madre, Pino, con grande commozione, raccontò loro le sue peripezie, gli disse di stare bene e di non preoccuparsi e, dopo aver fatto una piccola scorta di cibo con pezzi di polenta e formaggio, salutò nuovamente e si allontanò da casa. Ora era disertore anche agli occhi della legge ed ora ormai un condannato a morte: rimanere a casa della propria famiglia o lì vicino era un pericolo troppo grande, per lui e per loro, e così decise di vivere nei boschi della valle, alimentandosi con ciò che trovava e cercando di stare il più lontano possibile dalle persone, che avrebbero potuto fare le spie e denunciarlo. In quei mesi di solitudine nei boschi, Pino fu tentato di raggiungere la Baita dei Partigiani situata in Monte Sovere, La Malga Lunga, rifugio di partigiani e disertori. La sua voglia di libertà e di vivere era tanta ma un pensiero lo attraversò. “E quando mi verrà consegnata un’arma?”. Pino sapeva cosa significava rischiare la pelle: per ben due volte la propria l’aveva messa a repentaglio per scappare e fuggire dalle violenze della guerra. Avrebbe avuto lo stesso coraggio di sparare al nemico prima che il nemico avesse fatto lo stesso a lui? No, non ce l’avrebbe mai fatta. Non sarebbe mai riuscito ad uccidere un’altra persona. Teneva talmente tanto alla vita che si rifiutò categoricamente di dover salvare la propria pelle portandola via a qualcun altro. E così decise di continuare a nascondersi sulle montagne, nella speranza che la guerra finisse e che qualcosa succedesse. Dopo poco tempo, il destino gli offrì un’opportunità. Grazie ad un contadino, che guadagnò la sua fiducia aiutandolo con del cibo e dell’acqua in località Monticelli, Pino scoprì che in paese, a Leffe, era da poco stata riaperta una miniera chiusa dalla fine della prima guerra. Il proprietario, un certo Soldano, assumeva i disertori, permettendo così loro, in cambio del lavoro in miniera, la libertà e quindi la possibilità di tornare dalla propria famiglia. Pino si fece indicare l’ufficio di questo Soldano, che si trovava nei pressi della scaletta che oggi porta sul provinciale di Leffe, e si presentò a lui. Dinnanzi a Soldano, uomo dalla grande stazza che incuteva in lui un certo timore, Pino raccontò impaurito la sua storia e riuscì, con grande sorpresa, ad ottenere il lavoro. Nonostante la prospettiva di una faticosa vita in miniera, a volte anche oltre cinquanta metri sottoterra e con poca aria a disposizione, Pino era contento perché aveva raggiunto l’obiettivo più importante: aveva ottenuto il “lasciapassare”, il documento che gli dava la possibilità di poter lavorare senza dover subire ripercussioni per la sua diserzione. Con il lasciapassare tra le mani, tornò a casa quella sera con le lacrime agli occhi e attraversò il paese a testa alta. “Libero” ripeteva a sé stesso “finalmente libero” e, appena tornò a casa, la famiglia lo festeggiò per tutta la notte in un bagno di lacrime e di gioia per la fortuna di averlo ancora lì e poter godere gli uni degli altri. Pino lavorerà in miniera alternandosi al lavoro nei campi con il padre e proprio da qui, il 25 Aprile 1945, udì provenire dal paese le campane suonare a festa: la guerra era finita. Finita la guerra svolse il servizio militare: prima a Siena nei bersaglieri, poi nel 78° reggimento Fanteria “Lupi di Toscana” ed infine a Firenze svolgendo il lavoro di cuciniere.
Tornato a casa dalla leva militare, lavorò nei campi e fece il muratore, poi passò venticinque anni nei telai di una ditta della zona e infine, gli ultimi anni prima della pensione, tornò a fare il muratore nell’impresa di un suo cugino. Nel frattempo, il 13 Agosto 1953 sposò l’amata Leonilda Alberti, la Nonna Linda, con cui passerà 63 anni di matrimonio: 63 anni dal cui amore nasceranno Marisa, Graziella e Alessandro. Anno dopo anno, la famiglia diventò sempre più numerosa e da padre e madre diventeranno dapprima zii e nonni ed in seguito anche bisnonni e prozii. La loro casa divenne ben presto un punto d’appoggio, un luogo di ritrovo, un porto sicuro per i figli, per i nipoti e anche per l’infinita schiera di amici che gli volevano bene. Si passava per un saluto, un caffè, un attimo di conforto, un bicchiere di vino ed alcuni, i più temerari, passavano giusto giusto per sentire la voce di Pino, che, a modo suo, ti dava il benvenuto, ti accoglieva ma soprattutto non ti lasciava mai andar via a mani vuote. Come ai tempi della sua infanzia, a casa di Pino non mancava mai la polenta: a chiunque fosse passato nell’ora di pranzo, le dodici in punto, gliene veniva sempre offerta una fetta assieme all’immancabile salame che, naturalmente, era preparato da lui. “La polenta non deve mancare mai!” diceva, “se non avanza, non era abbastanza!”. Perché Pino sapeva che cosa significasse fare la fame e soprattutto sapeva quanto fosse importante avere ed essere una famiglia: per questo cercava di “essere famiglia” con chiunque si avvicinasse a lui, per farli sentire a proprio agio e parte di un qualcosa in cui lui aveva sempre creduto e in cui aveva sempre donato tutto sé stesso. Ma Pino non era solo lavoro e famiglia. In una vita già ricca di emozioni, Pino, ogni volta che poteva, si ritagliava i suoi spazi e si concedeva qualche soddisfazione tramite le sue grandi passioni: la caccia e la montagna. Fece la sua prima Licenza di caccia nel 1941, a soli 16 anni, grazie alla firma del “Tata”, suo padre, e alla fine saranno circa ottante le licenze collezionate con solo due pause, entrambe forzate: nel 1944 in quanto tale attività fu proibita dal fascismo e nel 1946 poichè era impegnato con il servizio militare. Fatta eccezione per questi due periodi, Nonno Pino andò a caccia e stazionò presso il suo capanno fino alla veneranda età di 98 anni, così come fece anche per la montagna. Se la caccia era il suo passatempo, la montagna era la sua vita. “E’ una bestemmia dire che non mi piace stare a casa” era solito dire “ma io a un certo momento non ce la faccio più: devo uscire ed andare sui monti!”. Fin da bambino, scalava le montagne delle nostre zone, di cui era perdutamente innamorato, e lì si estasiava e rimaneva a contemplare quella sua grande passione. Tante furono le cime che raggiunse e altrettante le foto, che espose come trofei in casa, a testimonianza delle sue avventure. In un modo o nell’altro il richiamo della montagna si faceva sempre sentire e lì, il nonno, poteva ancora tornare con la mente a quando, senza aver niente se non qualche fetta di polenta e un po’ di formagella, si sentiva di avere tutto. Negli ultimi tempi saliva solo in Monte Croce, dove vi erano il capanno di caccia, un pezzo d’orto e le galline e siccome le ginocchia, a un certo momento, non risposero più ai comandi, si spostava armato del fedele “Camions”, il suo Ape. Lui e il suo Ape: amici inseparabili, tanto inseparabili che ogni tanto, scherzando, diceva che se ne sarebbero andati assieme e che qualcuno li avrebbero trovati nel bosco o in fondo alla valle. E alla fine lo scherzo lo hai fatto tu a me, facendomi trovare quell’ape fuori casa quando hai capito che non saresti più stato in grado di guidarlo: il tuo ultimo regalo che non scorderò mai… Quanto gli piaceva ridere e scherzare. Non perché fosse avvezzo alla risata facile ma perché sapeva quanto bella e preziosa fosse la vita. E nessun altro meglio di lui lo sapeva perché più di una volta aveva visto la morte in volto. Sia in guerra, sia a casa dove con grandi lacrime ricordava la fine prematura di sei dei suoi fratelli, morti in tenera età per cure e conoscenze che all’epoca non c’erano. E forse è anche per questo che ha sempre avuto uno stretto legame con noi nipoti. Si è sempre sentito giovane e tra i giovani gli piaceva stare e proprio per questo, grazie ad un suo amico professore, accolse e visse con entusiasmo la possibilità di raccontare la sua esperienza di reduce presso l’Itis di Gazzaniga, al fine di trasmettere il suo ricordo ed il suo messaggio a più generazioni. Speravo non arrivasse mai questo momento… eppure eccoci qui.
Purtroppo, è arrivato il giorno dell’addio. Domenica 8 Settembre 2024, attorno alle 10:30, il Nonno ha raggiunto la Nonna e tutte quelle persone che prima di lui se ne sono andate, persone a cui ha dato e ricevuto amore, amicizia e rispetto. La notte prima di andarsene, mio padre e le mie zie, che lo vegliavano, l’hanno sentito giocare “alla Müra”, chiamando un suo vecchio amico del tempo: chissà, forse quell’amico era venuto a chiamarti dicendoti che era ormai giunto il tempo di fare una partita con lui, di passare un po’ di tempo con la nonna, di abbracciare un’altra volta i tuoi genitori. Caro nonno, è giunto il tempo di salutarsi e lo farò con un ultimo ricordo. In una bella intervista, a cui ti prestasti con entusiasmo per l’Associazione Nazionale Combattenti e dei Reduci della Federazione di Bergamo, ti venne chiesto quale testamento avresti voluto lasciare alle nuove generazioni: con la tua proverbiale ironia, dissi che i giovani avrebbero dovuto imparare a vivere a contatto con la natura come facesti tu e soprattutto che avrebbero dovuto essere sempre galantuomini e sinceri. “… con la falsità ti sembrerà di andare lontano ma non andrai da nessuna parte, con la sincerità invece arrivi in capo al mondo!”. Ecco, con queste tue parole noi vogliamo dirti grazie, grazie perché te ci hai fatto sentire in capo al mondo: grazie per i tuoi insegnamenti e per i tuoi valori, tra cui il più importante quello della famiglia, che te e la nonna avete sempre tenuto unita, accogliendo tutti a braccia aperte. Per la nostra San Rocco, la nostra piccola comunità di cui eri la persona più anziana ed ora sei e rimarrai un simbolo. Sai nonno, sarà strano non sentire più la tua voce, quel timbro di voce così particolare che riecheggiava per le vie di San Rocco ma sappi che la tua voce non sparirà con il vento ma rimarrà indelebile nei nostri cuori. Lo so, il tuo ultimo sogno era quello di tagliare il traguardo dei 100 ed essere ricordato anche per questo ma ti assicuro che, per chi ti ha conosciuto, per la tua figura, la tua grinta e la tua voglia di vivere, il tuo ricordo vivrà in eterno. “O Dio dei monti e dell’immensità Ti prego, porta il mio pianto fin lassù A lui che amo, che i monti tanto amava Digli che io mai più lo scorderò” Ciao Nonno.