Ezio Merini: racconta sua sorella Alda, la poetessa che scriveva versi sui muri

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    Ezio ha gli stessi occhi di Alda, quasi che quello sguardo arriva dritto da dove se ne è andato giusto un anno fa, il giorno dei Santi, 1 novembre, non un giorno qualsiasi, il giorno in cui Alda Merini ha deciso di tornarsene in cielo, lei che era nata in un altro giorno particolare, il 21 marzo, quando la primavera sboccia e sembra pronta a buttare addosso strofe di poesie al mondo. Ezio è il fratello di Alda, classe 1943, 12 anni di meno, Ezio che a Clusone è di casa, lui che ci è finito per caso un giorno del 1995 e si è innamorato di quel centro storico che sembra inghiottire la valle e arriva in cielo. Così Ezio ogni anno torna per qualche settimana di vacanza. Ezio stringe fra le mani un libro che racconta Alda: “Ne hanno scritti tanti, ma io sono suo fratello e so chi era Alda e so chi la sa raccontare”, e a raccontarla questa volta è lui, Ezio Merini, il fratello, lui che è cresciuto con Alda, lui che la conosceva come nessun altro, lui che ogni giorno la sentiva al telefono, lui che era il suo confidente, lui che si incazzava, lui che sorrideva e lui che alla fine allargava le braccia: “Perché lei era così, altro non ci potevo fare, la lasciavo fare”. La casa sui Navigli “La nostra casa erano i Navigli, erano e sono la nostra casa anche se non ci abitiamo più, c’erano i bombardamenti, distrussero la nostra prima casa, io sono nato in cantina. Ricordo che Alda mi teneva sulle ginocchia da piccolo, ricordo la casa di Riva Ticinese, ricordo quegli anni con addosso la voglia di vivere che prendeva il sopravvento su tutto”. E come è nata la poesia di Alda? “Ha sempre scritto, ce l’aveva dentro, A 10 anni vinse il premio Piccola Poetessa d’Italia, ricordo che vinse 1000 lire dalla regina Maria Jose”. Salvatore Quasimodo Ezio è una miniera di aneddoti e quando li racconta è come se fosse ancora lì: “Una sera eravamo a casa, era buio, autunno, bussano alla porta, mio padre va ad aprire, vede un uomo sull’uscio e gli dice in milanese ‘lu chi lè?’. Era Salvatore Quasimodo, premio nobel, voleva conoscere chi scriveva quei versi che aveva trovato in giro, le poesie di Alda”. E Alda? “Alda era una ragazzina ma aveva già il carattere che l’ha accompagnata tutta la vita, sicura di sé, ricordo una frase, gli disse: ‘tu sei grande, ma io sarò più grande di te’. Lei era così, è sempre stata così, diretta, sfrontata, sicura”. Ezio gira e rigira nel cuore i ricordi della sua Alda, si ferma, ricomincia: “La poesia che preferisco di Alda è il Gobbo”. Ezio si tocca i capelli, sorride e la recita tutta d’un fato: “Dalla solita sponda del mattino, io mi guadagno palmo a palmo il giorno: il giorno delle acque così grigie, dall’espressione assente. Il giorno io lo guadagno con fatica tra le due sponde che non si risolvono, insoluta io stessa per la vita… e nessuno m’aiuta. Ma viene a volte un gobbo sfaccendato, un simbolo presago d’allegrezza che ha il dono di una strana profezia. E perché vada incontro alla promessa lui mi traghetta sulle proprie spalle”. Ezio ricomincia: “Alda era così, spiazzava coi versi, con la vita, ho letto tante cose di lei e ho capito che pochi la conoscevano veramente. Del resto non faceva niente per farsi conoscere, lei era com’era e basta, pensa che aveva un’insufficienza in lettere a scuola”. Un po’ come Einstein che era stato bocciato in matematica. Ezio sorride: “Già, ti racconto un aneddoto. Io studiavo al Carlo Cattaneo, avevo una bravissima insegnante di lettere, Anna Rizzi, era anche vice preside, una persona che amava l’italiano e che ha contribuito a farlo conoscere e apprezzare in tutta Italia. Bene, era la mia insegnante e un giorno ci dice di scrivere un compito dal titolo ‘ciò che vi è capitato’. Era il 1955, io torno a casa e chiedo ad Alda di aiutarmi, solitamente allora compiti di questo tipo erano lunghi dalle 10 alle 12 pagine. Lei prende la penna e scrive di getto una paginetta e mezza e mi riconsegna i fogli. Io il giorno dopo consegno il compito, passa una settimana. L’insegnante riconsegna i compiti, mi chiama alla cattedra e mi dice ‘il contenuto è enorme, non ho potuto aggiungere né un punto, né una virgola ma non l’hai scritto tu’. Aveva ragione”. Manca la penna Ezio racconta Alda come fosse infilata dritta davanti a lui, qui seduta a guardarlo: “Sei stata ancora a casa sua, avrai visto che non c’era una penna in casa. Hai visto ancora una scrittrice senza penne? Lei era così, non ne aveva bisogno, non scriveva, dettava di getto al telefono anche 20-30 pagine senza pensarci, tutte d’un fato, faceva così con editori, amici. Ricordo in ospedale, regalava liriche a tutti, sul momento, di getto, senza pensarci”. Alda era ed è una delle poche poetesse a vendere migliaia, milioni di libri, eppure non era ricca, per niente, perché? “Perché non gliene fregava niente dei soldi, li regalava a tutti, usciva lì sui Navigli, vedeva qualche negozietto o bancarella di cianfrusaglie e comprava di tutto, qualcuno le chiedeva i soldi e lei li dava, non aveva il senso del denaro, non l’ha mai avuto. Ha sempre fatto solo quello che voleva fare, era felice così e io non la potevo e non la volevo cambiare”. San Francesco Alda, senza soldi, senza penna, ma con la poesia infilata dappertutto, anima e cuore: “Un giorno ha chiamato una casa editrice, avevano già chiamato, volevano una sua poesia su San Francesco, Alda non ha scritto nulla, ha detto che non aveva nulla da dire e poi gli ha dettato di getto venti pagine, la poesia le sgorgava dal dentro, come non fosse lei stessa in grado di firmarla, sgorgava e basta, e lei la lasciava uscire”. Ezio che mastica poesia e arte da una vita: “Perché ho avuto la fortuna di lavorare in un colorificio nel centro di Milano dove passavano i più grossi pittori, venivano lì e chiacchieravamo, ho imparato a conoscere l’arte da loro”. E attraverso uno di loro conosce anche Clusone: “Uno di loro andava in vacanza a Clusone e Venezia, mi incuriosiva questo strano binomio, così nel 1995 sono venuto a vedere com’era Clusone e sono rimasto innamorato. Un paese caldo, diverso, con un centro storico che si infila nella vallata, mi piace qui, da allora ci vengo sempre e poi qui Alda la Nata in Primavera ALDA MERINI Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta… adorano tutti, sai, la amano di più i bergamaschi che i milanesi”. Ezio che se ne è andato dai Navigli e abita a Assago con moglie e figlio: “Ma i Navigli mi sono rimasti dentro, casa nostra, siamo nati tutti lì”. Alda però non se ne è mai andata: “Ma lei era così, te l’ho detto, ha sempre fatto quello che ha voluto, ha sempre vissuto come le piaceva vivere, fregandosene di quello che dicevano gli altri e io la lasciavo fare. Mi chiamava ogni giorno, ogni mattina e mi teneva al telefono ore, lei era così col telefono, ore e ore di telefono. Non aveva il cellulare, altrimenti sarebbe andata in rovina, usava il fsso e arrivavano bollette stratosferiche, migliaia di euro al mese”. Le bollette pagate da Mike E come faceva a pagarle? “Molte volte gliele pagava qualcun altro, Mike Bongiorno, Pippo Baudo, erano in tanti a voler bene ad Alda, era facile voler bene ad Alda”. E cosa ti diceva al telefono? “Lei era bravissima a raccontare barzellette, si faceva incredibili risate, era viva, sempre viva, anche quando stava male era viva. In casa non aveva penne, non aveva fogli perché l’essere vivo è talmente immediato da rovesciare tutto in pochi secondi, all’istante”. In quell’appartamento sui Navigli c’era di tutto, monili, oggetti, libri accatastati, sigarette dappertutto, tappeti: “Fumava e fumava, un disordine che per lei era vivo, ma per chi entrava poteva sembrare disastroso, ma io sapevo che era così e l’accettavo”. La poesia sui muri E poi i muri, sui muri dell’appartamento di Alda c’erano segnati con rossetto o con qualsiasi matita trovasse di passaggio numeri di telefono, frasi, nomi, il il Dio specifico che ha creato montagne, fumi e foreste lo si immagina solo… con la barba, vecchio, un po’ cattivo, un Dio crudele che ha creato persone deformi, senza fortuna. Credo nella crudeltà di Dio. Non penso siano idee blasfeme, la Chiesa non mi ha mai condannata. Anzi, il mio “Magnifcat” è stato esaltato, perché ho presentato una Madonna semplice, come è davvero lei davanti a questo stupore dell’Annunciazione, che non accetta fino in fondo perché lei ha San Giuseppe. Io pregavo da bambina, ero sempre in chiesa, sentivo sette, otto, dieci messe al giorno, mi piaceva, però non ci vado più dai tempi del manicomio. Ho trovato una tale falsità nella Chiesa allora, in manicomio vedevo le ragazze che venivano stuprate e dicevano di loro che erano matte. Stuprate anche dai preti, allora mi sono incazzata davvero. L’ho visto accadere ad altri, non è una mia esperienza. La Chiesa è dura con le donne, da sempre. Però oggi come sono magre e secchette le donne, prima erano belle adipose. Sono tornata a Milano quando è fnita la guerra, siamo tornati a piedi da Vercelli, solo con un fagotto, poveri in canna, e ci siamo accampati in un locale praticamente rubato, o trovato vuoto, di uno straccivendolo. E ci stavamo in cinque. Abbiamo ripescato anche mia sorella che era partita con i fascisti, con i tedeschi, aveva imparato, si metteva in strada, tirava su le gonne, i tedeschi andavano in visibilio e le regalavano il pane, si sfamava così, si alzava solo la gonna, era bellissima. In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 18 anni, dove dormivo scusate? Così poi l’ho sposato, nel 1953. Era un operaio, è morto nel 1983, un lavoratore. Si chiamava Ettore Carniti, io sono zia del sindacalista Pierre Carniti e anche mio marito era sindacalista. Un bell’uomo. Ho avuto quattro figlie da lui. Andavamo a mangiare la minestra da mia madre perché lui non aveva ancora un lavoro. Poi abbiamo preso una panetteria in via Lipari, non è che proprio facevamo il pane, era solo una rivenditoria. Mi chiamavano la fornaretta. Ho avuto la mia prima bambina nel 1955, Emanuela, poi nel 1958 è nata anche Flavia. Avevo 36 anni quando è nata la mia ultima figlia, Simona, e prima ancora era arrivata Barbara”. A Ezio Merini ALDA MERINI Fratello, perché chiamarti fratello se eri soltanto un amico, un amico piccino piccino che tenevo per mano. Abbiamo perso insieme il cuore più grande del mondo: nostra madre che cantava nei giorni di primavera. Ti ho ritrovato uomo, con le dita operose che suonavano il mio cuore. Ogni tanto adesso mi prendi sui ginocchi e mi baci la fronte come fossi tua madre. muro era la sua agenda, e adesso? “Stanno cercando di togliere i pezzi di intonaco senza rovinarli per poi poterli esporre, speriamo riescano. Lei adorava i suoi muri”. Un caos che sembrava poter generare vita e spazio anche se Alda dal suo appartamento non si muoveva quasi mai: “Aveva fatto diventare quello il mondo e il mondo in effetti lì entrava, come viaggiare stando fermi. Poi alcune cose non le condividevo, ma non ci potevo fare niente”. Quali? “Tante, una delle ultime la sua apparizione a Chiambretti Night, stava già male e ha fatto una pessima fgura, gliel’avevo detto di non andare, ma non mi ha dato retta, lei non mi dava mai retta. Alla fne hanno dovuto farle una puntura e portarla via”. Alda e il manicomio, quando ha cominciato a star male, perché stava male? “Non lo so, non lo so, lei è sempre stata la stessa, qualcosa di interno, qualcosa di strano, ma lei non era triste, era qualcosa dentro, qualcosa che non so come è arrivato, forse c’era già, come la poesia, c’è sempre stata, lei non ha avuto maestri, ha cominciato a scrivere da bimba, me la ricordo da bimba che scriveva da sola. Era già così”. Pianista autodidatta E come era da piccola Alda? “Come era anche da grande, istintiva, felice, imprevedibile. Siamo cresciuti felici, mio padre ci ha mandato a scuola, ha fatto sacrifci, non avevamo molto, come tutti in quegli anni, la guerra aveva distrutto Milano, ma eravamo felici e curiosi di vivere. Io poi mi sono trasferito a Torino, ognuno di noi tre ha seguito quello che gli piaceva fare, Alda più di tutti, l’hai mai sentita suonare il pianoforte? quello che aveva in casa? ha imparato da sola, suonava benissimo, quando voleva fare una cosa la imparava”. Ezio si tocca la fronte: “Mi manca, mi mancano soprattutto le sue telefonate del mattino, il telefono non suona più e io a volte sto li a guardarlo e aspetto che suoni, ma niente da fare”. “Non si legge così Garcia Lorca” Alda che con Ezio non aveva barriere: “Ma comunque non era quella che raccontavano, a volte era un vulcano, ti racconto una delle sue ultime uscite. Era difficile che lei partecipasse a incontri, però gli avevo chiesto di venire ad Assago per una manifestazione che si chiamava ‘I poeti leggono i poeti’. Alda doveva leggere Ada Negri, la nipote di Dulbecco doveva leggere Garcia Lorca. La chiesa era gremita, il Comune entusiasta, per Alda erano venuti da tutte le parti. Bene, lei fumava tranquillamente anche se c’erano misure antincendio dappertutto e non si poteva. Ma il peggio arriva quando la nipote di Dulbecco finisce di leggere Garcia Lorca, Alda prende il microfono, la guarda e dice ‘non si legge così Garcia Lorca’ e comincia a recitarlo lei. Tutti in silenzio. La Dulbecco è rimasta malissimo e ha detto ‘ma io qui cosa ci sto a fare?’. Naturalmente nessuno ha osato dire niente ad Alda ma a me non è piaciuta la cosa. Alla fine gliel’ho detto: ‘guarda che i grandi sono sempre umili e tu non sei più umile’ ma non gliene fregava niente, faceva di testa sua. Era consapevole di essere diventata

    grande. Quando c’era qualche incontro di poesia non veniva mai nessuno, appena invece c’era lei arrivavano anche in sacco a pelo da tutta l’Italia. Però poi diventava di una semplicità e di una simpatia disarmante”. In ospedale ad Alzano Anche in ospedale: “E’ stata ricoverata ad Alzano per due interventi e tutti i medici e gli infermieri erano affascinati dal suo modo di fare, mandava i medici a comprare le sigarette, scriveva liriche per tutti, raccontava barzellette. Ricordo una volta che dovetti andare io in ospedale, era agosto, arrivò un medico e mi disse ‘c’è sua sorella’, entrò Alda con una pelliccia, faceva caldo”. Un vestito per il Papa E poi il tumore al polmone che se l’è portava via: “Ma non sembrava così grave, ci avevano detto che sarebbe stata una cosa lenta e magari non fatale e invece la situazione è precipitata in pochi giorni. L’hanno ricoverata e stava male ma non ha mai perso il buonumore. La sua stanza era sempre piena di medici e infermieri, scherzava con loro, li mandava a comprare le sigarette, gli dettava poesie”. Era consapevole di quello che aveva? “Credo di sì ma non l’ho mai vista piangere, aveva fede, l’unica cosa che la preoccupava era di poter trovare in paradiso la sua stessa casa dei Navigli ‘altrimenti è meglio l’inferno’, la voglio uguale, allora si che sarebbe Paradiso”. Però un rimpianto ad Alda è rimasto: “L’aveva chiamata Gianfranco Ravasi che adesso è in Vaticano ed è sempre stato una persona molto vicina ad Alda, le aveva detto che il Papa voleva vederla, era al settimo cielo, lei ha sempre avuto un rapporto particolare con la fede, in casa non aveva un abito pulito o tenuto bene, eppure sul letto da qualche tempo c’era un vestito pronto per andare a Roma, un vestito nero, riposto sul letto e pronto ad essere indossato, è rimasto lì, Alda è morta prima di poter andare in Vaticano dal Papa”. O forse, lei che amava solo i numeri uno, ha scelto direttamente di andare dritta dal Padre Eterno.

    Per mio fratello ho fatto l’ostetrica

    Questo sotto è un testo autobiografico di Alda Merini che racconta suo fratello raccolto dalla giornalista Cristina Ceci nell’autunno del 2004: “Sono nata a Milano il 21 marzo 1931, a casa mia, in via Mangone, a Porta Genova: era una zona nuova ai tempi, di mezze persone, alcune un po’ eleganti altre no. Poi la mia casa è stata distrutta dalle bombe. Noi eravamo sotto, nel rifugio, durante un coprifuoco; siamo tornati su e non c’era più niente, solo macerie. Ho aiutato mia madre a partorire mio fratello: avevo 12 anni. Un bel tradimento da parte dell’Inghilterra, perché noi eravamo tutti a tavola, chi faceva i compiti, chi mangiava, arrivano questi bombardieri, con il fato pesante, e tutt’a un tratto, boom, la gente è impazzita. Abbiamo perso tutto. Siamo scappati sul primo carro bestiame che abbiamo trovato. Tutti ammassati. Siamo approdati a Vercelli. Ci siamo buttati nelle risaie perché le bombe non scoppiano nell’acqua, ce ne siamo stati a mollo finché non sono finiti i bombardamenti. Siamo rimasti lì soli, io, la mia mamma e il piccolino appena nato. Mio padre e mia sorella erano rimasti in giro a Milano a cercare gli altri: eravamo tutti impazziti. Ho fatto l’ostetrica per forza portando alla luce mio fratello, ce l’ho fatta: oggi ha sessant’anni e sta benissimo. La mamma invece ha avuto un’emorragia, hanno dovuto infagottarla insieme al piccolo e portarseli dietro così, con lei che urlava come una matta. A Vercelli ci ha ospitato una zia che aveva un altro zio contadino, ci ha accampati come meglio poteva in un cascinale. Sembrava la Madonna mia madre, faceva un freddo boia, era una specie di stalla, ci siamo rimasti tre anni. Non andavo a scuola, come facevo ad andarci? Andavo invece a mondare il riso, a cercare le uova per quel bambino piccolino: badavamo a lui, era tutto fermo, c’era la guerra. Stavo in casa e aiutavo la mamma, andavo all’oratorio, ero una brava ragazza io. Io sono molto cattolica, la mia parrocchia a Milano era San Vincenzo in Prato. Mi sento cattolica e profondamente moralista, nel senso che sono una persona seria allevata da genitori serissimi, pesanti e pedanti in fatto di morale. Non lo so se credo in Dio, credo in qualcosa che… credo in un Dio crudele che mi ha creato, non è essere cattolici questo? Perché, Dio non è così? Tutti abbiamo un Dio, un idoletto, ma proprioil Dio specifico che ha creato montagne, fumi e foreste lo si immagina solo… con la barba, vecchio, un po’ cattivo, un Dio crudele che ha creato persone deformi, senza fortuna. Credo nella crudeltà di Dio. Non penso siano idee blasfeme, la Chiesa non mi ha mai condannata. Anzi, il mio “Magnifcat” è stato esaltato, perché ho presentato una Madonna semplice, come è davvero lei davanti a questo stupore dell’Annunciazione, che non accetta fino in fondo perché lei ha San Giuseppe. Io pregavo da bambina, ero sempre in chiesa, sentivo sette, otto, dieci messe al giorno, mi piaceva, però non ci vado più dai tempi del manicomio. Ho trovato una tale falsità nella Chiesa allora, in manicomio vedevo le ragazze che venivano stuprate e dicevano di loro che erano matte. Stuprate anche dai preti, allora mi sono incazzata davvero. L’ho visto accadere ad altri, non è una mia esperienza. La Chiesa è dura con le donne, da sempre. Però oggi come sono magre e secchette le donne, prima erano belle adipose. Sono tornata a Milano quando è finita la guerra, siamo tornati a piedi da Vercelli, solo con un fagotto, poveri in canna, e ci siamo accampati in un locale praticamente rubato, o trovato vuoto, di uno straccivendolo. E ci stavamo in cinque. Abbiamo ripescato anche mia sorella che era partita con i fascisti, con i tedeschi, aveva imparato, si metteva in strada, tirava su le gonne, i tedeschi andavano in visibilio e le regalavano il pane, si sfamava così, si alzava solo la gonna, era bellissima. In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 18 anni, dove dormivo scusate? Così poi l’ho sposato, nel 1953. Era un operaio, è morto nel 1983, un lavoratore. Si chiamava Ettore Carniti, io sono zia del sindacalista Pierre Carniti e anche mio marito era sindacalista. Un bell’uomo. Ho avuto quattro figlie da lui. Andavamo a mangiare la minestra da mia madre perché lui non aveva ancora un lavoro. Poi abbiamo preso una panetteria in via Lipari, non è che proprio facevamo il pane, era solo una rivenditoria. Mi chiamavano la fornaretta. Ho avuto la mia prima bambina nel 1955, Emanuela, poi nel 1958 è nata anche Flavia. Avevo 36 anni quando è nata la mia ultima fglia, Simona, e prima ancora era arrivata Barbara”.

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