E’ A CAPO DI UN GRUPPO DI RICERCA DEL ‘’MARIO NEGRI’’ – IL MORBO DI GHERIGH COLPISCE SOPRATTUTTO I CALCIATORI: TRAUMI, FARMACI ED ERBICIDI TRA LE POSSIBILI CAUSE

    65

    Ci sono cinquemila persone in Italia che hanno un massimo di aspettativa di vita (di morte) di cinque anni. Una condanna a morte con scadenza certa. Per centinaia di loro si è già ridotta a mesi, per alcuni a giorni. E’ una malattia che non ha rimedi, non c’è un farmaco, quello più effi

    cace prolunga la vita di tre mesi. L’industria farmaceutica non è interessata, cinquemila persone sono niente per il mercato del farmaco. Eppure ha un’incidenza sei volte superiore rispetto alle altre professioni in una categoria coccolata e di grande impatto mediatico, che muove ogni domenica centinaia di migliaia di tifosi che si ammassano negli stadi, milioni di appassionati che la seguono in tv: sono i calciatori. La malattia, la Sclerosi Laterale Amiotrofi ca è chiamata SLA, ed è classificata come “malattia rara”. E tutti guardano con apprensione e speranza a un piccolo laboratorio alla periferia di Milano, quartiere di Bovisa, nella sede dell’Istituto Mario Negri. Da dieci anni a capo di una squadra di dieci studiosi c’è una dottoressa bergamasca. Si chiama Caterina Bendotti, è nata a Vilminore di Scalve. Non è un personaggio se non nella ristretta cerchia dei ricercatori internazionali. “Se da un lato il fatto che l’incidenza della malattia sui calciatori favorisce la visibilità, dall’altro la ricerca non fa mai notizia, è lunga e faticosa, ti capita di sperimentare un farmaco e ci vuole minimo un anno per avere un riscontro e spesso è negativo e devi ricominciare da capo”. Caterina Bendotti ha conservato il viso dolce di quando ragazzina è partita dal paese per la grande città. E sente il fiato corto di chi è malato, alcuni li conosce personalmente, ma la ricerca, come la natura, non fa salti nel vuoto, ci vuole tempo e pazienza. I malati “rari” non hanno tempo, forse conservano una pazienza esistenziale che sfi ora però la rassegnazione. “Il nostro è uno studio di ricerca di base preclinica, studiamo dei modelli sperimentali sia di tipo cellulare, cellule in provetta, o dei modelli animali, i topi, che sviluppano delle patologie simili alla Sla”. Questa ricerca ha un costo. “Il costo del mio laboratorio è intorno ai 300 mila euro l’anno. E ogni anno devo trovare sostegni per coprire questo importo…”. Devi trovarli tu? “Sì, ogni anno scrivo progetti e li mando all’Unione Europea, alle Fondazioni, alle Associazioni, al Ministero della Sanità o all’Istituto Superiore della Sanità…”. E sei sempre riuscita a ottenerli, comunque. “Diciamo che viene finanziato il 30% dei progetti che scrivo e invio. E spesso purtroppo non ci danno neanche l’intera cifra che chiediamo”. Credo di aver capito che questo succede perché la malattia viene considerata rara, nonostante siano 5.000 i casi accertati solo in Italia. “Le malattie sono considerate rare quando hanno un’incidenza di 5 su 10.000, se ricordo bene. Nel nostro caso abbiamo 2 casi su 100 mila, ecco perché secondo i parametri viene considerata rara”. E nei calciatori è più presente: “E’ sei volte più frequente nei calciatori che nel resto della popolazione”. Ci sono altre categorie professionali che hanno incidenze maggiori rispetto al totale? “Non ce ne sono fi nora rilevate come nel calcio. Hanno fatto rilevazioni anche sui ciclisti, ma un po’ meno. I calciatori di serie A e B controllati sono stati 24 mila dal 1970 al 2001, mentre i ciclisti professionisti controllati sono stati 6 mila e non è stato riscontrato nessun caso di SLA”. E avete individuato alcune cause? “Diciamo che cause singole no, abbiamo trovato una concomitanza di eventi e di fattori che possono portare alla malattia. Per i calciatori i fattori individuati sono i traumi, la maggior parte di questi calciatori sono centrocampisti. Sono traumi di tipo muscolare dovuti a calci e impatti, l’uso smodato di sostanze lecite, ad es. il Voltaren o il cortisone, usati in grande quantità per recuperare in fretta il dolore del trauma e lo stress da fatica e tornare in campo per la partita successiva…”. Traumi muscolari quindi. “Anche traumi cranici per i colpi di testa che possono colpire i motoneuroni primari del cervello… I traumi muscolari invece potrebbero essere responsabili della morte dei motoneuroni secondari del midollo spinale che vanno a innervare e controllano i muscoli volontari delle gambe e braccia. Quindi un trauma cranico e/o muscolare può scatenare la malattia ma solo in concomitanza con particolari situazioni.

    Abbiamo visto quello dell’uso smodato di sostanze lecite, ma anche erbicidi che vengono usati nei campi per mantenere bella l’erba…”. Per i campi sintetici avete ricerche? “No. La ricerca è dal ’70 al 2001 e quindi erano campi in erba. Che io sappia non c’è una casistica più recente. Tutto è partito dall’indagine di Guariniello sul doping nel calcio che ha incaricato nel 2000 alcuni neurologi esperti di esaminare quanti casi di SLA c’erano in una popolazione di 24mila calciatori professionisti che avevano giocato tra il 1990 e il 1996, e da lì sono partite le varie ipotesi. Che io sappia sono in corso studi analoghi sui rugbysti in Inghilterra e sui giocatori di football americano negli Stati Uniti”. Traumi, farmaci, erbicidi: sono ipotesi o certezze? “Sono per ora tutte ipotesi, non abbiamo certezze, ma sono tenute in considerazione da noi e da altri gruppi di ricerca per valutare se siano fattori scatenanti la malattia”. Perché è così veloce la degenerazione della malattia? “In genere nella popolazione generale la malattia ha una durata dai 3 ai 5 anni, in media”. Non si guarisce, si muore. “Questa è una malattia che porta alla morte sicura in tempo breve”. Non c’è nessuno che è guarito? “No”. (E dopo un momento per lasciar pesare la risposta): “E’ una malattia molto grave e si muore quando arriva a interessare i muscoli della respirazione”. E non c’è rimedio, uno che ha la malattia sa che deve morire nel giro, se va bene, di cinque anni dal momento in cui si ammala? “Per il momento non c’è rimedio”. E voi pensate di trovarlo questo rimedio e in quanto tempo? “La speranza ce l’abbiamo, la possibilità di farlo in tempo breve invece non c’è ancora. E’ una malattia particolare. Anche se si conosce un gene mutato che produce la malattia, i fattori che da quel gene scatenano la malattia sono molteplici, quindi bisogna riuscire ad agire su tutti, individuando quel meccanismo particolare che determina la morte dei motoneuroni. Fino ad adesso quel ‘punto’ non l’abbiamo ancora individuato”. Ma avendo una categoria, quella dei calciatori, che ha un’incidenza sei volte superiori al resto della gente, da fuori sembrerebbe più circoscritta e in certo senso facilitata anche la ricerca. “Stiamo infatti cercando di analizzare alcune delle potenziali cause ipotizzate in quel settore, quelle che ho detto prima, traumi, abuso di farmaci, erbicidi. Le analizziamo singolarmente e in associazione per vedere se inducono la malattia in una delle nostre cavie, i topolini oppure per vedere se portano all’aggravamento della malattia in topi già predisposti. In pratica noi usiamo i nostri topi che hanno un gene mutato, quello che produce la proteina SOD1 che normalmente serve a proteggere il nostro organismo dai radicali liberi e che quando è mutato produce la SLA. Il gene di questa proteina è stato visto essere mutato solo nel 3% di tutti casi di SLA, quindi il 97% di quelli che sono ammalati di Sla non ha questo gene mutato. Ma focalizzandoci su questa piccola popolazione e potendo produrre un modello da laboratorio ad esempio i topi con lo stesso difetto genetico, possiamo verifi care se dando le sostanze utilizzate dai calciatori queste possono accelerare o no la malattia. In questo modo possiamo capire se queste sostanze sono elementi importanti e nel caso poi colpire questi elementi con la speranza di bloccare la malattia”. In termini banali state cercando il vaccino… “Noi stiamo cercando dei farmaci”. E ci sono nel frattempo dei farmaci per almeno ritardare la malattia? “No, c’è un solo farmaco che però ha mostrato, su una popolazione di seimila pazienti, un aumento dell’aspettativa di vita, insomma ha ritardato la morte di soli tre mesi, troppo poco”. Uno potrebbe pensare, sono in dieci, lavorano a tempo pieno tutto l’anno, cosa occorre, un colpo di genio, di fortuna o cosa? “Sono esperimenti molto lunghi. Se si considera che i nostri topi con la malattia hanno una durata di vita di sei mesi ogni volta che facciamo una ipotesi e testiamo una nuova sostanza ci vuole almeno un anno per ottenere il risultato. E spesso succede che il risultato non era quello che uno si aspettava e quindi deve ricominciare daccapo. Però questo non è un risultato negativo perché può far scoprire qualche altra cosa che val la pena di indagare. La ricerca è fatta di tanti tentativi falliti che sono magari quelli che alla fi ne danno la risposta più importante per andare in un’altra direzione”. E intanto ci sono 5 mila persone in Italia che stanno aspettando e non hanno alcuna speranza? E’ così? “In questo momento sì”. E mediaticamente non fate notizia, pur avendo come malati i calciatori: “Intanto devo dire che il Presidente dell’Associazione contro la SLA, Mario Melazzini, che è un medico, un oncologo, malato di SLA, è riuscito a rendere pubblica questa situazione drammatica. Va ovunque per sensibilizzare la gente e soprattutto per smuovere le istituzioni affi nché si prendano carico dei pazienti affetti da questa devastante malattia. Il 18 settembre ricorre infatti l’anniversario del ‘sit-in’ che i malati di SLA e i familiari fecero nel 2006 a Roma davanti al ministero della salute per sensibilizzare le massime Istituzioni del Paese sui loro problemi. Poi, come ho detto, la ricerca di base, ha La ricercatrice scalvina che vuol dribblare la SLA il morbo che brucia “una vita da mediano”
    Ê poca risonanza. Cerchiamo di fare quello che possiamo, quando abbiamo un risultato importante, evitando di dare false speranze, lo rendiamo noto con comunicati stampa o attraverso Telethon. Ma bisogna stare attenti, perché dai mass media vengono fuori le notizie in modo che quella che può essere una speranza per le future generazioni, viene data magari in modo da indurre i malati a credere che sia imminente. L’importante è far sapere che stiamo lavorando e abbiamo bisogno di energia, di forza lavoro cioè i ricercatori e di fondi che ci aiutino a mantenerli ”. Sei ottimista? “Sì, sono ottimista perché si stanno delineando delle cose, fi no a qualche tempo fa si pensava fosse una malattia determinata solo da una certa causa che poi non si è rivelata quella, si pensava che fosse una malattia solo del motoneurone e invece adesso si sa che sono coinvolte altre cellule del sistema nervoso e che forse occorre studiare meglio anche i muscoli.

    Inoltre rispetto a qualche anno fa ora c’è molta più comunicazione tra i ricercatori di base come me e i neurologi che si occupano dei malati e questo porterà certamente ha un’accelerazione delle conoscenze perché potremo verifi care più in fretta se ciò che abbiamo trovato nei topi abbia un riscontro anche nei pazienti. Poi, certo, l’industria farmaceutica ha poco interesse, i numeri (degli ammalati) sono troppo bassi. Quindi trasformare quello che sperimentiamo in laboratorio in farmaci per l’uomo è lungo e costoso in termini di test e di sicurezza, il topo è il topo, l’uomo è l’uomo, noi possiamo studiare nel topo come muore la cellula e sappiamo che tutte le proteine presenti nella cellula malata del tipo sono le stesse presenti nella cellula malata dell’uomo, però il dare un farmaco a un topo è una cosa, all’uomo è un’altra…”.

    Mario Melazzini fa il medico, mica un medico qualsiasi, direttore del day hospital oncologico della Fondazione Maugeri di Pavia e presidente nazionale dell’Aisla, l’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofi ca e soprattutto malato di SLA o morbo di Gehrigh. Melazzini, 50 anni, 3 fi gli con la SLA inizia a conviverci nel febbraio del 2002, diffi coltà a pedalare sulla sua bici, crampi e il piede sinistro che va per suo conto. La diagnosi arriva quasi un anno dopo, gennaio 2003, sclerosi laterale amiotrofi ca. Melazzini non ha bisogno di molte spiegazioni, lui che il linguaggio medico lo mastica da sempre, lui che i malati li vede ogni giorno, lui che sceglie di isolarsi e starsene da solo, per capire, pensare, decidere. Sino al giorno che pensa che si può fare, lasciare la terra prima che la SLA gli si infi li dappertutto, così contatta per posta elettronica un’associazione svizzera per ricorrere al suicidio assistito. Passano i giorni e la risposta arriva: Melazzini è giudicato “compatibile con la procedura” e gli fi ssano un colloquio preliminare. Melazzini sente freddo dentro, un gelo che non ha nulla di umano e cambia idea, decide di viversi la vita che gli resta. Attorno a lui i familiari, una badante romena, il cantante Ron e il gesuita Silvano Fausti, che gli suggerisce la lettura del biblico Libro di Giobbe. Si cambia e Melazzini decide che inguaribile non sempre vuol dire incurabile. Sabato 13 settembre Mario Melazzini era a Clusone per parlare della SLA, per farla conoscere, per cercare di muovere qualcosa, che non solo i calciatori si ammalano: “La mia sofferenza personale mi ha consentito di pormi dall’altra parte della barricata – ha raccontato Melazzini – anche se questa espressione è forse impropria perché non è affatto scontato che il medico e il paziente debbano fronteggiarsi nella reciproca estraneità. Penso alla tesi di uno psichiatra americano, Harvey Max Chochinov, per cui la dignità del malato terminale sarebbe affi data ‘allo sguardo di chi lo ha in cura’. Chochinov dimostra che un approccio medico basato sulla compassione e il dialogo può prevenire la tentazione del ricorso all’eutanasia. Ricordo anche una frase di Benedetto XVI: ‘Lo sguardo che liberamente accetto di volgere all’altro decide della mia stessa dignità’. Nel rapporto con un paziente inguaribile, è in gioco la stessa dignità del medico curante, che ha l’opportunità di rifl ettere sul senso originario della propria professione”.

    pubblicità