INCHIESTA – Sulla rotta della bestia e quel muro eretto tra Messico e Stati Uniti dove di notte la gente porta acqua e cibo a chi fugge sul treno

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di Giorgio Fornoni

La Grande Carovana che ha tentato di forzare il blocco tra il Sud e il Nord dell’America si è dovuta fermare contro il Muro, invalicabile come quello di una fortezza, eretto al confine tra Messico e Stati Uniti. Erano quasi 10mila migranti, un’ondata umana che confidava nel numero per superare la grande barriera posta all’ingresso del Primo Mondo, il paradiso della ricchezza e del benessere che attrae come un miraggio i disperati di tutto il continente americano. Ma il numero non è bastato contro la mobilitazione militare, tecnologica e politica comandata da Trump, il cavallo di battaglia della sua campagna elettorale. I desperados hanno tentato in tutti i modi di superare l’invalicabile barriera di muri, sensori, reticolati, sbarre che ha trasformato il confine tra Messico, California e Texas in un inferno di frustrazione e tragedia, nel simbolo di una divisione disumana tra ricchi e poveri, tra chi ha un passaporto e chi è destinato a vivere “indocumentado”, senza documenti, tra chi sogna una vita migliore e chi quella vita ce l’ha già e non intende spartirla con nessuno.

Il Muro attuale misura 1123 chilometri, ma per quanto imponente ha ancora troppe falle e smagliature. Trump vuole portarlo a 3200 chilometri, alzarlo fino a 10 metri, scavando per altri 9 sotto terra, con un investimento di quasi 6 miliardi di dollari. L’intenzione è quella di arrestare le schiere di migranti da un oceano all’altro, tra Tijuana, sulle rive del Pacifico a Ciudad Juarez e a Matamoros, sul Golfo del Messico. Un flusso che non si arresta, nonostante le barriere e che porta 500mila persone a tentare la sorte ogni anno. A rischio della propria vita, perché le gang del narcotraffico, i passatori del deserto (i famigerati “coyotes”) e la corruzione estesa a tutti i livelli, hanno trasformato la striscia di terra nel deserto dell’Ovest e quella segnata dalle sponde del Rio Grande in un cimitero a cielo aperto.

Nell’infuocato confine di Tijuana tra gli ‘indocumentados’

Sono tornato in Messico, sull’infuocato confine di Tijuana, per capire cosa spinge migliaia di persone a premere ogni giorno alle porte del Nordamerica, a tre mesi da quella ondata che aveva destato tanta emozione mediatica. Oggi l’attenzione si concentra sulla battaglia politica di Trump per ottenere dal Congresso la cifra spropositata richiesta per il Grande Muro in progetto. Quello che interessava me era invece capire come un’umanità disperata e bisognosa di tutto possa continuare a sognare quel passaggio impossibile, accampata a ridosso della barriera in un’attesa che potrebbe essere infinita. Il mio riferimento era un giornalista che vive a Tijuana e che conosce tutto di quella drammatica situazione, dove la via dei migranti si intreccia con gli interessi del narcotraffico, le trappole della prostituzione e del traffico di esseri umani. Victor mi ha portato là dove gli “indocumentados” sono costretti ad aspettare per mesi la risposta alla domanda di permesso al passaggio della frontiera che scrivono comunque. Chi garantisce per loro sono alcune organizzazioni umanitarie, le loro speranze aumentano se possono contare su parenti o amici già dall’altra parte.

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