Grazia Milesi
La storia della Resistenza, anche di quella combattuta nelle nostre zone, è raccontata soprattutto come una storia di uomini, a volte comandanti, come Giovanni Brasi, o capisquadra; a volte veri e propri eroi, come Giorgio Paglia, i Tredici Martiri, i Fratelli Pellegrini; molto più spesso come semplici “gregari”, a costituire una brigata o una squadra partigiana.
Alcuni di loro hanno avuto l’onore di dare il proprio nome a una strada o ad una piazza; a qualcuno è stata dedicata una scuola.
Eppure, le donne che parteciparono alla lotta furono molte: caratterizzate da una presenza discreta, raccontata con poche parole lasciate cadere quasi distrattamente, all’interno di narrazioni sentite come importanti, perché centrate su figure maschili.
Furono coraggiose ed esperte infermiere, come Carolina Colombi a Valmaggiore; fiancheggiatrici generose dei partigiani, come la vedova Nene Lavezzi, pronta ad offrire un rifugio sicuro e del cibo caldo nella stalla posta sulla vecchia mulattiera Sovere-Bossico; figure ospitali come la Crista, base sicura per i ribelli nella cascina di proprietà di un avvocato di Bergamo, di cui conduceva il fondo a mezzadria, prima di arrivare al monte Blum.
Tutta vestita di nero, con un fazzoletto nero in testa, calze nere confezionate in casa, grembiule nero con due tasche per conservare le cose più preziose, aveva colpito la fantasia di Brach, Giuseppe Brighenti, insieme alla Genoara, indimenticabile anche per noi per la sua devozione religiosa, richiesta anche ai partigiani che ottenevano ospitalità nella stalla nel territorio di Ave, frazione di Ardesio, ma solo dopo la recita di tutta la corona, sgranata un’Ave Maria dopo l’altra, con l’aggiunta di spiegazioni per ogni mistero e di altre preghiere, che dovevano essere dette con convinta partecipazione: anch’essa vestita di nero, fazzoletto nero in testa, alta, dall’espressione severa, di circa cinquanta anni di età.
La sua preoccupazione era vegliare sul comportamento e sull’educazione di quei giovani, che, lontani da casa, correvano il rischio di crescere male senza le indispensabili cure materne.
Queste donne colpiscono per la forza dei principi che improntano la loro vita, semplice, essenziale, dove il necessario è appena sufficiente, ma assicurato anche all’ultimo arrivato, accolto comunque, senza fare conto del pericolo che si corre nel momento in cui gli si offre riparo. La loro naturale autorità riflette la determinazione nel portare aiuto a chi combatte per il bene di tutti: esprimono il carattere di una scelta rigorosa e indiscutibile, dettata dall’integrità della loro coscienza e da una profonda e genuina pietà verso i bisogni più elementari dei giovani che bussano alla loro porta, fiduciosi di essere accolti.
Le donne “postine”
Sono indispensabili per trasmettere messaggi e comunicare informazioni come fa la postina Lucia con l’amica Nene Lavezzi, che si assume il compito di recapitare poi le informazioni ricevute ai giusti destinatari; oppure sono osservatrici attente di ogni movimento improvviso e perciò sospetto: mentre lavora nel prato, Costanza, figlia di Goretto, Michele Cocchetti, della stalla Bianca sull’Altopiano di Bossico, registra il passaggio di fascisti o di tedeschi – nazisti – preludio di un rastrellamento o di una perquisizione.
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