ENDINE – Vincenzo, cinque anni dopo il Covid: “Da quando sono uscito dall’ospedale devo tenere l’ossigeno, soprattutto quando faccio i 30 scalini per entrare in casa mia”

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Cinque anni fa l’inizio dell’incubo Covid. Araberara proprio in occasione di questo anniversario ha deciso di raccontare le storie dei sopravvissuti. Qui vi lasciamo l’intervista di Vincenzo, di Endine, mentre altre storie le trovate sul numero in edicola dal 21 febbraio e proseguiremo anche su quello che sarà in edicola il 7 marzo.

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Era marzo, non stavo bene da un paio di giorni, avevo la febbre alta, facevo fatica a camminare e a muovere le mani e mi mancava il respiro”, inizia così il racconto di Vincenzo Figaroli, 80 anni tondi. Il Covid è una storia lontana cinque anni, ma il ricordo è sempre lì, fisso, non si cancella mai. È un pomeriggio piovoso di gennaio, Vincenzo e sua moglie Eugenia, che lui chiama affettuosamente Geni, mi accolgono nella loro casa di Rova, piccolo borgo sopra Endine. Vincenzo porta con sé uno zainetto nero, dentro c’è la sua bombola dell’ossigeno.

Il racconto prosegue, nitido: “Avevo chiesto a mio nipote di andare a comprarmi il gelato, mi sembrava l’unica cosa che riuscissi a mangiare. Avevo immaginato fosse il Covid, d’altronde i sintomi erano quelli e in tv non si parlava d’altro. Il fiato non arrivava e quella sera abbiamo deciso di chiamare l’ambulanza, ma per due volte ci hanno risposto che non riuscivano e così abbiamo aspettato fino a domenica notte”.

Eugenia riprende: “La febbre continuava a salire, ne aveva più di 39, e quando l’ho visto su quella poltrona quasi morto, ho preso di nuovo il telefono e ho chiamato, quella volta mi hanno detto che sarebbero arrivati”. E poi? “Gli hanno provato la febbre, era 40.5 e hanno deciso di portarlo via… le nostre scale sono strette e quindi è sceso da solo, non so nemmeno come abbia fatto, poi l’hanno messo sul lettino e l’hanno portato via. Non l’ho più visto”.

Quell’inferno che abbiamo tanto sentito raccontare, Vincenzo e Geni l’hanno vissuto sulla loro pelle: “C’era un posto a Lovere e mi hanno ricoverato lì. Un infermiere del pronto soccorso dopo un paio di giorni è entrato nella mia stanza e mi ha detto che sono stato fortunato, se avessimo aspettato mezz’ora, non sarei qui a raccontare cosa mi è successo. Mi hanno messo il casco per respirare, ma non riuscivo a muovermi, ero immobile, paralizzato… dalla vita in giù non sentivo più niente, ma anche le braccia e le mani erano bloccate”.

Il percorso però è stato molto più lungo di così: “Pensavo di fare riabilitazione a Lovere e invece mi hanno messo sull’ambulanza e sono finito al Papa Giovanni XXIII, ero in un corridoio, in una specie di portico, che era stato allestito con una quindicina di letti… quante urla ho sentito in quei giorni… e quando poi sono diventato negativo, mi hanno trasferito a Sarnico, dove però sono rimasto soltanto due giorni”.

Perché? “Stavo di nuovo male, sentivo freddo, tremavo… era tornata la febbre alta e quindi mi hanno riportato a Bergamo e sono finito in terapia intensiva. Ero da solo, in uno stanzino grande come la mia cucina, dove sono rimasto per una quindicina di giorni e poi mi hanno portato in reparto alla quinta colonna… insomma, a Bergamo ci sono rimasto più o meno per tre mesi”.

Ad attendere Vincenzo ci sono stati poi 55 giorni di riabilitazione nella struttura di Sarnico “e finiti quelli ho passato altri sei mesi alla casa di riposo Contessi Sangalli di Corti, per cercare di riprendermi al meglio”.

Il 31 marzo del 2021 è stato il grande giorno del rientro a casa: “Sono stato via per un anno e otto giorni, ma pensi sia finita qui? No! Quell’anno Pasqua cadeva il 4 aprile e qualche giorno dopo mi sono sentito male di nuovo… abbiamo chiamato l’ambulanza e stavolta era il cuore a giocarmi un brutto scherzo. Mi hanno portato a Seriate, dove mi hanno operato perché avevo una coronaria completamente chiusa e sono rimasto per 22 giorni”.

Hai avuto paura? “No, non ci pensavo nemmeno alla paura”.

E la fede? “Ho pregato tanto, quello sì”. Annuisce anche Eugenia: “Certo! Ho fatto la novena alla nostra Madonna del Rosario, e sto ancora pregando. Anche in chiesa don Simone aveva chiesto di pregare per Vincenzo e noi questa vicinanza l’abbiamo sentita, perché gli vogliono bene tutti, è un uomo buono, anche se lui non vuole che lo dica… è stato anche 20 anni in Protezione Civile, fin da quando nel 1997 è andato in pensione. Tra le persone che ci sono state vicine dobbiamo anche nominare il dottor Zambetti, che è sempre venuto qui a casa, anche di notte quando non stava bene e poi passava ogni 15 giorni fino a quando è andato in pensione”.

Vincenzo torna ancora con la testa alla parentesi di vita lontano da casa: “In ospedale il tempo non passava mai e non potevo fare grandi cose a dire la verità. I fisioterapisti mi aiutavano ad alzarmi dal letto e mi spostavano sulla poltrona e mi aiutavano a fare un po’ di movimento. Non riuscivo a stare nemmeno troppo sulla poltrona, mi stancavo e mi faceva male la schiena quindi poi chiedevo di tornare a letto”.

E l’ossigeno? “Dal giorno in cui mi hanno ricoverato l’ho sempre tenuto, in ospedale 24 ore su 24, mentre quando sono tornato a casa ho provato una notte a staccarlo e ho dormito abbastanza bene. Ho deciso di provare a staccarlo di notte e così ho sempre fatto, mentre di giorno lo uso quando sento che faccio fatica o quando devo camminare e soprattutto quando faccio quei trenta scalini che hai fatto anche tu per arrivare qui. All’inizio anche quando sono tornato a casa usavo il girello per camminare, mentre poi ho iniziato ad usare il bastone visto che facevo fatica con una gamba. E poi devo dire che Geni è sempre stata al mio fianco, mi ha sempre accompagnato”.

Eugenia è stata il suo punto di riferimento e il Covid è stata una dura sfida anche per lei: “È stata difficile per lui, ma anche per me. Siamo sposati da ormai 54 anni, non abbiamo avuto figli e siamo sempre andati d’accordo, siamo sempre stati solo io e lui… quando l’hanno portato via sono rimasta qui da sola, ricordo ancora che alle 2:30 ho messo fuori le lenzuola, mi sono messa a pulire casa e piangevo, piangevo, piangevo. Avevo tanta paura e quando mi hanno chiamato per dirmi che sarebbe stata lunga ma che era fuori pericolo sono andata subito di sotto a dirlo a mio nipote, ero così felice e sollevata. Non vedersi per un anno è stato difficile, anche quando era alla casa di riposo potevamo vederci solo attraverso un vetro, è stato terribile, lo vedevo dimagrire continuamente… mi mancava anche solo prenderlo per mano, solo a Bergamo un giorno mi hanno permesso di dargli un bacio sulla fronte, con la mascherina ovviamente”.

Quando poi Vincenzo è tornato a casa… “La sera stessa è stata una grande festa con tutti i parenti, poi il giorno dopo, quando l’ho aiutato a vestirsi e continuava a dirmi ‘guarda come sono diventato magro’ per me è stato un colpo al cuore. L’ho sistemato sulla poltrona e poi sono andata in camera e mi sono buttata sul letto a piangere”.

Gli occhi di Vincenzo diventano lucidi: “Prima di ammalarmi pesavo 90 chili e quando sono tornato ne avevo persi 36, puoi immaginare come mi sentivo… però sono qui”. Vincenzo e Geni si scambiano uno sguardo che sorride, dove dentro ci sono tante emozioni. E noi ci fermiamo qui, con la fotografia più dolce che sbiadisce almeno per un attimo i ricordi che hanno appesantito l’anima per troppo tempo.

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