benedetta gente

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    C’era un detto coniato al tempo in cui il regime fascista “confiscò” le campane nei vari paesi per farne cannoni: “Campane a terra, persa la guerra”. Col suono delle campane un tempo si apriva la giornata e la si chiudeva, si annunciava il mezzogiorno, si scandivano le ore, si chiamava la popolazione (che al tempo coincideva con i “fedeli”) alla Messa, alla festa, ai funerali. E si sapeva distinguere la campana a morto per “genere”, a secondo del numero dei rintocchi si sapeva se ad andarsene era un uomo o una donna. E poi la “campana a martello” in casi di emergenza.

    Adesso quei mesi terribili del 2020 sono passati nella “memoria” di un giorno dedicato. Ma è una memoria già sfilacciata, che ha bisogno appunto di un richiamo annuale.

    No, non suonavano a martello quelle campane nel tragico marzo di tre anni fa. Erano rintocchi ossessivi che si mescolavano al suono stridulo delle sirene delle ambulanze nel grande silenzio delle strade deserte, noi rinchiusi nelle case, sporgendoci dai balconi che davano sul niente, le voci che si rincorrevano con il pudore di non trasformarle in grido, in urlo di dolore, “hanno portato via il…” e poi ancora un altro, “ma dove?”.

    Il “dove” misterioso dei corridoi intasati dei piccoli e grandi ospedali, a morire, soli, su un materasso, e poi via, la notte con il camion della morte che si portava via le bare, gli infermieri, i medici impotenti, mancava il respiro, l’ossigeno, il messaggio su whatsapp che era di conforto e poi d’improvviso più niente, le telefonate disperate e le risposte frettolose, un altro numero da aggiungere all’elenco dei morti, “ma stava bene…”.

    E la grande paura, le mascherine, il misurino della febbre, il suono del campanello, no, non è il prete che porta la brutta notizia, anche lui ha chiuso la chiesa, nessun funerale, i santuari sprangati, un lume sulla finestra. Suonano di nuovo alla porta, no, è solo quello che porta il pane e qualcosa da mangiare, anche lui bardato come un astronauta. Su un terrazzo lontano uno ha messo la bandiera, al balcone del vicino c’è lo stendardo della madonna, un suono lontano, è l’inno nazionale, siamo tutti, ognuno nel suo bunker, uniti come non lo siamo mai stati, un condolore diffuso come una nebbia sul paese.

    E ancora la campana, e ancora la sirena dell’ambulanza che a qualcuno ricordava i monatti manzoniani, quelli che vengono a prenderti e poi e poi…

    Le due Diocesi delle due capitali della cultura hanno avuto l’idea di ripetere quel suono delle campane, un rintocco per ogni morto in paese in quei due mesi tragici, alla stessa ora, le valli e le città percosse dal rimbombo ripetuto, ancora ossessivo, per inchiodare nella memoria quei adesso lontani suoni della campana a morto, sabato 18 marzo alle 20 della sera, che viene in mente Garcìa Lorca: “… Una bara con ruote è il letto / alle cinque della sera / ossa e flauti suonano nelle sue orecchie / alle cinque della sera / la stanza s’iridava d’agonia / alle cinque della sera / le ferite bruciano come soli / alle cinque della sera…”.

    Ogni sera ci si ritrova, si gira si gira e non ci si incontra mai. Perché è ogni sera che ci mancherà sempre qualcuno. Quel qualcuno che si è fatto rintocco di campana, in questa sera della memoria.

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