benedetta gente

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    «Uomini cui pietà non convien sempre / male accettando il destino comune, / andate, nelle sere di novembre, / a spiar delle stelle al fioco lume, / la morte e il vento, in mezzo ai camposanti, / muover le tombe e metterle vicine / come fossero tessere giganti / di un domino che non avrà mai fine»(De Andrè).

    Il domino della nostra storia, non c’è un filo cronologico, bisogna ritrovarlo tra le tombe, tra i sorrisi postumi di chi ha molto creduto e di chi è morto per le fedi altrui, giovani soldati che adesso appaiono “datati”, muti testimoni di epoche di cui non serbiamo neppure le date.

    L’archivio delle storie e della memoria, il camposanto, torna, nelle sere di novembre, a ricordarci che le nostre mattane sono a termine, come la vita. I volti sorridono nelle foto sulle lapidi, la data di un principio e di una fine, l’alfa e l’omega, frasi che giurano eterni ricordi che invece il tempo diluisce in vago rimpianto di un “desco fiorito d’occhi di bambini”, quello che siamo stati intorno a tavoli fumanti di nostalgie. “Eravamo poveri, ma ci accontentavamo e a modo nostro eravamo più felici di adesso”, mi dice uno che a occhio avrà la mia età e si sente perso tra un figlio che si trova in difficoltà a sbarcare il lunario e nipoti che nemmeno ci pensano a tornare poveri.

    Tutto nel presente ci sembra eterno, le nostre animosità, rabbie, esultanze, rancori, dolori, furori, speranze, delusioni, illusioni.

    Ma finisce tutto lì, in un cimitero di lapidi. Esorcizziamo la morte (halloween), via via di qua, «agguanta la mia mano e ce ne andiamo / Tanto di noi si può fare senza / e chi vuoi / che noti mai la nostra assenza»(Paolo Conte). Un tempo fin da bambini dell’asilo ci portavano in fila ai funerali: era un pezzo del paese che seppellivamo, ma doveva restare in memoria. Il paese era quello che era diventato anche per quello che quell’uomo o quella donna avevano fatto, nel bene e spesso anche nel male.

    Tempi da lupi questi in cui il passato viene rimosso in fretta e furia, frasi di condolore di circostanza, funerali brevi, una lacrima e poi subito ci si ributta nel presente, impegni che ci dovrebbero tenere al passo, chi resta indietro è perduto.

    E adesso c’è la riscoperta del “merito”. Ma bisogna applicarlo risalendo la filiera: chi giudica è a sua volta meritevole del ruolo? Come lo ha avuto, come se lo è… meritato? Chi giudica il giudice? Già molte scuole hanno adottato metodi di giudizio di ispirazione aziendale con il risultato che il voto viene assegnato addirittura in decimali, molto “oggettivo”, dove il “soggettivo” viene soppresso, l’insegnante così se ne lava le mani, è stato “giusto” secondo i parametri che valgono per tutti. Il piccolo particolare è che ogni alunno è “soggettivo”, ma questo mondo è impietoso, i tuoi problemi (sociali e finanziari) te li tieni a casa, la scuola devi fornirti competenze. Per le conoscenze che non siano prettamente “produttive” non è più questo il tempo né il luogo.

    E allora… «Uomini, poiché all’ultimo minuto / non vi assalga il rimorso ormai tardivo / per non aver pietà giammai avuto / e non diventi rantolo il respiro: / sappiate che la morte vi sorveglia / gioir nei prati o fra i muri di calce, / come crescere il gran guarda il villano / finché non sia maturo per la falce».

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