benedetta gente

    102

    Mio padre era giù alla stalla, la vacca stava per partorire. Le aveva messo una coperta sulla schiena, le dava da bere acqua tiepida. E le parlava, piano, non l’avevo mai sentito con quel tono quasi affettuoso nemmeno con mia madre. Tieni acceso il fuoco, mi diceva di tanto in tanto. E a me sembrava un mondo da presepe, un piccolo mondo antico che sarebbe stato spazzato via presto, giù in città c’era il progresso, lui mi pagava gli studi perché vivessi meglio di lui che aveva fatto tutte le guerre che altri avevano dichiarato, che aveva passato la vita sottoterra, nella miniera e adesso respirava aria buona ma con una fatica boia, l’erba da tagliare, il fieno da volta e rivolta e gli animali nella stalla.

    Era sera e sarebbe stata notte tra un momento. Una notte prima di un esame all’università. Avevo comprato un libro, che non era nemmeno un libro, erano fotocopie ritagliate. L’aveva scritto Emanuele Severino, poco prima che lasciasse l’Università Cattolica per incompatibilità filosofiche. Qualche mese prima avevo parlato con mia madre, devo comprare un libro per l’esame di filosofia. Va bene, compriamolo, aveva detto. Il fatto è che costa tanto. Cosa vuoi che costi un libro, ce la faremo. Quando le ho detto la cifra mia madre è sbiancata. E’ stata zitta un po’ e poi: vai giù a dirlo a tuo padre. Lui era alla stalla con le sue mucche, a volte lo sorprendevo arrivando piano e lo sentivo parlare con i suoi animali, a tutti aveva dato un nome e il giorno in cui si doveva uccidere il maiale erano inquieti tutte e due, mio padre e il maiale, che sentiva l’odore della morte. Mio padre si alzava che era ancora scuro, non parlava, se ne andava giù a far bollire l’acqua nel bidone. E io a pensare che era tutta fatica sprecata, in città c’erano negozi che nemmeno a immaginarli, supermercati con le scale mobili e le cassiere carine, che razza di vita era quella di faticare per portare fieno su nel fienile, mai un giorno di vacanza, nemmeno il giorno del patrono che era anche il mio onomastico ma era nel tempo della prima fienagione.

    Mio padre ha ascoltato, quando gli ho detto che quel maledetto libro costava come un quarto di quanto spendevamo alla bottega per camparci in sette, ha fatto la faccia di uno che si deve prendere un altro carico di fieno sulle spalle: venderemo una mucca, ha detto rassegnato.

    Quell’esame non l’ho mai dato, non con Emanuele Severino che se n’era andato due giorni prima senza che lo sapessi, il libro non serviva più a niente, forse era stato perfino messo all’indice, è ancora da qualche parte e mio padre non vendette la mucca, lo pagammo con i risparmi.

    I miei fratelli erano via a lavorare, per questo quella sera si era guardato in giro e restava solo quello studentello che andava all’università, perché tutti i miei figli devono studiare, aveva detto. Vieni giù con me che la Boba sta partorendo.

    Era notte ormai e con il fuoco del camino dove l’acqua bolliva nel pentolone lo vidi prendere un bastone, legarci ai capi delle cordicelle. Non capivo ma me ne stavo zitto, chissà a cosa serviva. Mi ha scosso le spalle per svegliarmi in quella notte, è ora. Spuntarono due zoccoletti, gli legò lo spago intorno e poi, tira piano, lént e seguént, piano piano, brava Boba, dai che è tutto finito. Sgusciò fuori il vitellino, bagnato, viscido, tentò di stare sulle gambe che gli si incrociavano e scivolavano e finiva per terra. Mio padre dava da bere alla vacca, poi puliva il vitello, stai fermo stupido, poi una manciata di fieno buono e una carezza sulla coperta, brava, sei stata brava.

    Io non c’entravo niente, io ero già di un altro mondo, il nuovo mondo, che guardava quello vecchio con la sufficienza dei giovani, il mondo dove mi ci aveva mandato lui, a costo della sua vita, delle sue fatiche, delle sue tre guerre: tutte perse.

    O μύθος δελοι οτι, la morale di questa storia è che siamo noi che ci siamo persi.

    pubblicità