Cinque anni fa l’inizio dell’incubo Covid. Araberara proprio in occasione di questo anniversario ha deciso di raccontare le storie di chi ce l’ha fatta. Qui vi lasciamo l’intervista di Giacomo di Premolo, altre storie le trovate sul numero in edicola dal 21 febbraio e proseguiremo anche su quello che sarà in edicola il 7 marzo.
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di Luca Mariani
«Era dodici anni che non facevo un giorno di malattia. Pensavo di non ammalarmi. Pensavo fosse solo poco più di un’influenza. Ero tranquillo perché dicevano colpisse gli anziani o le persone già malate. Mi sembrava un po’ esagerato quello che si stava facendo tra lockdown, mascherine e distanziamento.» Fino ad inizio marzo del 2020 Giacomo Benzoni è al lavoro, è l’elettricista della Radici group di Villa d’Ogna. Ha 52 anni e il fisico sano di chi ama camminare in montagna, alla ricerca di funghi o per respirare l’aria pura che gli serve per suonare il suo clarinetto.
Però la sera di giovedì 12 marzo torna a casa dopo il turno in fabbrica e ha più di 38 di febbre. La moglie Manuela, da buona operatrice socio-sanitaria, organizza subito la camera matrimoniale isolata per lui. Però nella notte tra martedì e mercoledì inizia ad avere grosse difficoltà a respirare: «La mattina dopo è arrivata la Croce rossa qui a casa a Premolo.» Racconta Manuela, seduta dirimpetto a Giacomo, avvolto nella felpa nera della Juventus, che conferma di non ricordarsi bene di quei giorni: «La prima volta che l’ho chiamata e mi hanno risposto che non c’era nessun posto né per venire a prenderlo, né come posti letto. Io ero sconcertata. Ho richiamato e mezz’ora dopo è arrivata. Non sapevano dove portarlo. Aveva solo 55 di saturazione, pensavano morisse, anche se non l’hanno detto.»
Così Giacomo viene portato all’ospedale di Piario. «È stato messo dove di solito c’è il parcheggio delle ambulanze, all’ingresso del Pronto soccorso. Lì avevano creato dieci posti letto per l’emergenza. Quella sera abbiamo fatto una videochiamata e sembrava stesse meglio rispetto alla mattina. Però era quello con la saturazione più bassa. Il giorno dopo mi ha scritto un messaggio incomprensibile, si vede che gli arrivava proprio poco ossigeno al cervello. Parlando con il personale sanitario poi ho capito che gli avevano messo il casco e non avrebbe più parlato con me, avrei dovuto contattare i dottori.» Allora la moglie il giorno seguente chiama l’ospedale negli orari consentiti, dalle 12.30 alle 14.30. Ma le notizie non sono buone: «Mi hanno detto che non era stabile e l’avrebbero intubato. Se non c’era Piario, Giacomo Benzoni non sarebbe qui. Il sabato sera, poi, la dottoressa mi ha chiamato e mi ha detto che non riuscivano a mantenere la pressione e che il primo posto che avrebbero trovato sarebbe stato per lui. Io ho risposto che saremmo andate avanti a pregare.»
Da quel momento Manuela dorme sempre sul divano, con la paura che il telefono squilli per comunicarle che il marito non ce l’ha fatta. E lunedì 23 marzo il cellulare suona, ma per fortuna Giacomo non è morto: «Il dottore mi ha detto che avevano trovato un posto a Vimercate. È stato intubato e sedato per undici giorni. Lì ogni giorno è sempre migliorato.»
Dopo una settimana, i medici dell’ospedale brianzolo provano a diminuire la sedazione a Giacomo e gli applicano la tracheotomia. Ma quel lento ritorno alla coscienza per Giacomo non è facile: «Avevo gli incubi. Continuavo a vedere che mia moglie era stata uccisa, che le avevano sparato.» Così l’anestesista chiama Manuela e sentendo la voce della moglie e delle due figlie, il clusonese residente a Premolo si tranquillizza. «Quando mi sono visto tutto legato, mi sono agitato, ho provato a strappare tutto.» Racconta Giacomo senza retorica o enfasi, con il sorriso sereno di chi sa che il buio è un ricordo passato. «I giorni peggiori sono stati quelli qui a casa. Poi anche in terapia intensiva, dal 30 marzo, da quando ero cosciente non mi passavano le giornate. Per quasi 15 giorni ero immobile nel letto. Da solo, giorno e notte non passavano. Ho imparato a memoria tutti i segni sui muri, sulle piastrelle e sul soffitto. Ero diventato la mascotte perché tanti degli altri sono morti, anche se io non mi sono mai accorto.»
Ma finalmente ad inizio aprile, quando il covid miete ancora più di 10 mila vittime al giorno in Italia, Giacomo lascia la terapia intensiva e viene portato in reparto. «Qui era diverso, era molto meglio anche se non avevo quasi più i muscoli delle gambe. Ho cominciato a fare un po’ di fisioterapia. All’inizio facevo ginnastica da sdraiato. La prima volta che mi sono alzato non riuscivo a stare in piedi, mi girava la testa. Mi sembrava di ripartire da zero. Avevo sempre l’ossigeno attaccato, senza mi mancava il fiato, non riuscivo. Poi ho cominciato con il girello, mi sembrava di scalare l’Everest. Provavo a fare ginnastica da solo perché volevo guarire, anche se avevo paura di non tornare più come prima. Poi, pian piano, i giri erano sempre più lunghi. Il problema era che avevo i battiti del cuore sempre alti. Il cuore doveva sforzarsi di più perché i polmoni non funzionavano bene.»
Non solo camminare. Il ritorno alla vita per Giacomo si scontra con altre difficoltà, legate a tutte le attività necessarie per la sopravvivenza: «La cosa più brutta è che non riuscivo ad andare in bagno da solo. All’inizio l’intestino mi faceva male, avevo delle fitte pazzesche. La prima volta che ce l’ho fatta per me è stata la cosa più bella che mi è capitata. All’inizio mangiavo tutto frullato. Mangiare era una faticaccia: toglievo l’ossigeno e vedevo la saturazione che calava. Finito il pasto ero esausto, ma soddisfatto.»
Però il musicista-elettricista è consapevole che «per migliorare mi dovevo sforzare.» Allora in silenzio, senza piangersi addosso si impegna e ogni giorno sente che il suo fisico risponde sempre meglio. Ad aiutarlo c’è anche il ritrovato rapporto con la famiglia, seppur mediato dal cellulare: «Mi hanno tolto la tracheotomia ed ero contento perché potevo parlare con loro.» Però la connessione ad internet gli spalanca anche gli occhi su quello che sta succedendo fuori dalla sua stanza d’ospedale, attorno a lui, in Italia, nel mondo e soprattutto tra la gente della valle Seriana: «Ho scoperto che tante persone che conoscevo non ce l’avevano fatta. Medici, infermieri e famigliari non mi avevano mai detto niente. Sono sempre abbastanza positivo. Non ho mai avuto l’impressione di non farcela, nonostante sognassi che mi mettevano nella bara e mia moglie mi faceva togliere. Ogni giorno un mio collega mi mandava le pagine con le foto dei morti. Solo allora mi sono accorto di quello che era successo.»
Con caparbietà e costanza Giacomo è in buona ripresa. Perciò, dopo quasi 50 giorni di ricovero ospedaliero, mercoledì 6 maggio è dimesso. Manuela accoglie Giacomo all’esterno dell’ospedale di Vimercate con Angelo e Davide, gli altri due fratelli Benzoni. «Ero calato 15 chili, ma sono uscito sulle mie gambe, anche se ogni cinque minuti mi sedevo. Era il primo giorno che non avevo l’ossigeno, ma ero troppo felice. Non vedevo l’ora.» Mascherina chirurgica, capelli più lunghi del solito, tuta blu e guanti azzurri monouso. In due sacchi di plastica ci sono tutti i suoi effetti personali. «L’hanno fatto venire a casa per evitare di prendere le altre malattie che giravano in ospedale.» Spiega Manuela con precisione: «Quando andava in bagno la saturazione gli scendeva ancora a 85. L’ospedale gli ha dato un cellulare e un saturimetro. Per due settimane faceva i controlli tre volte al giorno, per saturazione, battiti e pressione. Quando è tornato non sapevo se era ancora contagioso allora gli abbiamo preparato la camera isolata. Per un mese l’abbiamo aiutato ancora a lavarsi.»
«La prima sera ho fatto il bagno ed è stato bellissimo.» Ricorda Giacomo: «All’inizio facevo i giri del tavolo, poi mi sedevo, facevo le mie pause. Mi sentivo un centenne. Poi ho cominciato a camminare qui fuori al piano e dopo a fare gli scalini, piano piano, fino al cancello. Facevo due o tre pause, perché non mi veniva il fiato, per il resto stavo bene, avevo tanto appetito. Per due mesi ho mangiato solo fegato, roastbeef e bistecche di cavallo perché mi servivano le proteine. Dopo non ne potevo più. In estate sono riuscito ad andare in val Dossana. Dopo due o tre volte ce l’ho fatta ad arrivare in fondo, al fontanino. Abbiamo fatto l’allenamento per dove vado a funghi in Grabiasca. Ad agosto sono riuscito ad andare al lago Branchino. Ho fatto fatica ed ero un po’ demoralizzato, perché vedevo gli altri che andavano più veloce, ma stavo pretendendo troppo. Tre mesi prima ero in ospedale. Quel periodo è stato bello anche perché tanta gente che conosco mi ha chiamato. Pure tanti che non sentivo da anni.» «Ho scoperto che mio marito è molto determinato e non si è mai lamentato. Lo conosco da trent’anni ma questo lato di lui mi ha sorpresa.» Confessa Manuela fiera e commossa.
Sono passati cinque anni da quelle settimane che hanno cambiato l’esistenza di Giacomo, che hanno dato inizio a quella che sua moglie chiama: «La nostra seconda possibilità, la nostra seconda vita.» Quello che più infastidisce il cinquantasettenne è chi nega che la pandemia sia stata una tragedia: «Non riesco a capire quelli delle nostre zone che hanno dei dubbi. Non lo accetto.» Mentre sulla vaccinazione anti-covid il giudizio è meno netto: «Ha salvato la vita a tante persone, anche se sono d’accordo che è stato fatto tutto troppo in fretta e può aver provocato dei problemi. A me l’hanno fatto fare per avere il green pass anche se avevo 20 mila di anticorpi.»
Certo, il coronavirus ha segnato la sua persona e il suo fisico: «Ho il polmone sinistro che funziona all’80%.» Nonostante questo Giacomo Benzoni è tornato a fare l’elettricista alla Radici. Ma soprattutto è tornato a raccogliere funghi in Grabiasca e a regalare note con il suo il clarinetto sia a casa, sia con la banda cittadina G. Legrenzi di Clusone. Oramai ciò che più lo preoccupa e lo fa stare male sono i risultati deludenti della sua Juventus.