COVID, 5 ANNI DOPO – Don Armando, ex parroco di Parre: “Ero al ritiro coi cresimandi, avevo 40 di febbre… l’ossigeno, settimane tra la vita e la morte… quando sono tornato, ho messo il cappello di Alpino e sono andato a portare la comunione agli ammalati…”

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Cinque anni fa l’inizio dell’incubo Covid. Araberara proprio in occasione di questo anniversario ha deciso di raccontare le storie dei sopravvissuti. Qui vi lasciamo l’intervista di don Armando, ex parroco di Parre, mentre altre storie le trovate sul numero in edicola dal 21 febbraio e proseguiremo anche su quello che sarà in edicola il 7 marzo.

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È il 2020. È la fine di febbraio. Sono i giorni del carnevale e don Armando Carminati è impegnato con le attività sacre e i festeggiamenti in maschera: «La domenica ero a Lovere per il ritiro dei cresimandi. Non mi sentivo bene infatti quando sono arrivato a casa ho provato la febbre e ne avevo 40. Quel giorno ai volontari dell’oratorio ho detto di fare lo stesso la festa anche se già c’era la paura per il coronavirus.» Dopo un paio di giorni l’allora parroco di Parre sembra guarito. È martedì e la febbre non c’è più. Ma è solo una breve parentesi: «Come di colpo era sparita, è poi riapparsa. Giovedì mattina avevo tra i 37 e i 38. Lì mi sono preoccupato, perché in quei giorni era esploso il tema del contagio di covid-19. Ho chiamato il mio medico e lui si è allarmato, anche perché avevo difficoltà a respirare: avevo la saturazione sugli 80.»

Così, sabato 29 febbraio, don Armando, ascolta i consigli del suo dottore, Leonello Mazzoleni, e chiama il 118. Sono giorni complicati per il personale sanitario e le ambulanze. Il personale è poco e c’è troppo bisogno. Infatti nella canonica parrese i crocerossini arrivano un paio d’ore dopo la chiamata: «Sono venuti in stanza e mi hanno detto: “Don, noi dovremmo portarti via perché i dati ci sono tutti, però non sappiamo dove vai a finire e se ne esci, perché stiamo assistendo a di tutto e di più.” In quei giorni anche mio fratello don Luigi era in ospedale, cosciente e con il casco per l’ossigeno. Era nei corridoi e vedeva ogni momento gente arrivare e poi morire. Lui era in mezzo ai cadaveri. Quando lo chiamavo era scioccato e piangeva. Allora ho detto: “io firmo e resto qua.”»

Intanto a Parre come in tutti gli altri comuni della val Seriana la tragedia cresce in maniera impensabile e spaventosa: «Continuava a morirmi la gente. Alla fine ne sono morti più di trenta. Suonavo le campane, ma poi ho detto al sacrestano di smettere, perché era un casino.»

Perciò il sacerdote originario di Serina decide di non farsi ricoverare negli ospedali che già sono troppo pieni di malati. Però c’è un altro problema: recuperare una bombola di ossigeno, quasi introvabile ma necessaria per sperare di sopravvivere. «Avevo due signore che mi davano una mano per fare le pulizie della casa e della parrocchia. Una era una ex infermiera e ha trovato una bombola di ossigeno a Oltre il Colle. In quel momento sembrava un caccia al tesoro.» Da quel giorno bisesto don Armando è a letto e respira aiutato dalla bombola tutto il giorno, ma le sue condizioni peggiorano: «Per due settimane sono stato incosciente: ero più di là che di qua. Di questi momenti più bui della malattia non ricordo nulla. So che le due signore venivano a vedere se c’ero ancora e tenevano i contatti con i miei genitori e i miei fratelli che erano preoccupati. So che sono stato curato con degli antibiotici e con un antimalarico che c’era nelle farmacie di Parre. Erano fornite perché molti volontari andavano in Africa.»

Quei giorni la pandemia sembra ormai inarrestabile. Il covid mette a dura prova l’organismo del parroco parrese, ma non intacca la testa: «Non ho vissuto quei momenti come un incubo o un peso. Ero via, c’era uno strano torpore: ero sereno, non avevo pensieri. Ero perso, ma senza angoscia.» A differenza di altre migliaia di bergamaschi, don Armando supera l’abisso. La ripresa è lenta, riprende coscienza e poi «mi sono accorto che stavo riprendendo perché ho iniziato ad avere un po’ fame.»

La primavera calda e soleggiata, intanto, esplode anche sui pendii in fiore del monte Alino. La Settimana Santa e la Pasqua don Armando le trascorre da solo, nel suo letto, con le sue preghiere e l’ormai inseparabile bombola d’ossigeno che aiuta i suoi polmoni debilitati a respirare. «Dopo quella di Oltre il colle, ne hanno trovata una in paese, perché chi la stava usando è morto e la bombola era ancora abbastanza piena. Poi finalmente sono arrivate quelle del sistema sanitario.»

Così, mentre aprile sfiorisce e lascia spazio al mese dedicato alla Madonna. Mentre finisce il lockdown che ha chiuso l’Italia negli ultimi due mesi e inizia la tanto attesa “fase 2”, anche don Armando è pronto per ripartire. Grazie alle cure e alle preghiere di tutta la comunità il sacerdote classe 1960 non è più costretto a letto e non ha più bisogno dell’ossigeno: «Mi sono detto che dovevo rimettermi in forma per la mia gente. Dovevo resistere, nonostante la fatica. Ero affaticatissimo. Ho registrato un massaggio di gratitudine, perché mi sono arrivate le voci che gli amici e i parresi mi erano vicini. Li ho ringraziati e poi ho cercato di raggiungerli. Soprattutto gli anziani che stavano vivendo nella completa solitudine.»

Malgrado lo sforzo di camminare sempre con il fiatone e la difficoltà di stare in piedi a causa del mal di schiena che segna le sue giornate per circa un anno, don Armando è tornato con il suo spirito arrembante, vulcanico e propositivo di chi non si lascia fermare da piccolezze formali: «Leggevo che i preti erano in prima linea, ma non era vero: ci avevano messi nelle retrovie zitti e buoni. Ma io non riuscivo pensando a tanta sofferenza. Allora ho chiamato il capo degli alpini che giravano il paese a consegnare il cibo e gli ho detto: “io sono un associato, non ho fatto l’alpino solo perché ero in seminario, ma mi sento alpino. Anche mio papà è alpino. Allora prestami il cappello, la camicia e mi fai da autista.” Così sono andato a portare la comunione ai malati. Nella sicurezza, con la mascherina e sulla porta, senza entrare in casa anche se me lo chiedevano. Loro erano felici, gli avevo dato un po’ di sollievo.»

Sempre fedele al suo dinamismo spinto dall’altruismo e impreziosito dall’originalità don Armando a giugno inizia a celebrare le messe senza utilizzare i luoghi sacri, come stabilito dai numerosi e celebri Decreti del presidente del Consiglio. «Andavo da solo, avvisavo una zona, mi mettevo da solo in cortile, celebravo la messa e chi voleva mi vedeva dai balconi o dalle finestre. Mettevo il mio tavolino, stile missione in Bolivia. Era un bel momento anche per loro che si rivedevano e potevano salutarsi.» Però questo stratagemma ricco di buonsenso, ma al limite della legalità, non piace al vigile comunale: «Un giorno mi ha chiamato e mi ha detto: “guarda che non si può”, anche se ho cercato di spiegargli che non facevo nulla di male, che ero solo e non c’erano assembramenti. Allora lui cercava di beccarmi. Era come se mi avesse sfidato a giocare a guardie e ladri. Io naturalmente facevo il ladro. Lui mi cercava, io facevo girare la voce che andavo in una zona, ma poi andavo da un’altra parte. Mi divertivo e stavo con la mia gente.»

La fine dell’isolamento e il lento ritorno alla socialità, seppur con le dovute distanze di sicurezza consentono al parroco di incontrare chi come lui è stato colpito dal covid, ma è riuscito a sopravvivere: «C’era il bisogno di raccontare. C’era la soddisfazione di potersi vedere ancora e parlarsi. Eravamo come i superstiti della ritirata di Russia. C’era quello spirito.» La stessa voglia di ricordare, ma venata da un’ulteriore sofferenza, c’è in quelli che hanno visto i propri cari portati via dalla prima grave ondata della pandemia: «A me non hanno manifestato invidia. In loro sentivo la tristezza e il silenzio del dolore.» Proprio questo confronto con tutti i morti che hanno colpito anche la comunità di Parre lascia in don Armando una sensazione di stranezza e gratitudine: «Non mi sentivo in colpa. Da fedele, per me non è fortuna, ma è un dono. Mi sento ancora più responsabile della vita che ho ricevuto. Per questo ho voluto cercare subito chi aveva bisogno. Non c’è nessun eroismo.»

Tornando a quei mesi tragici e difficili del 2020, di ormai cinque anni, il sacerdote ha un ringraziamento speciale per il suo medico, il dottor Leonello Mazzoleni: «È di Almenno, perché l’ho preso quando ero parroco di Selino alto. Quando mi ero un po’ ripreso lui è venuto apposta a trovarmi. A Parre non c’era il medico, così gli ho detto che c’erano due casi. Una di queste aveva anche un tumore. Lui, bravissimo, si è mosso per andare a visitarli, anche se non doveva. È stato generoso.»

Adesso don Armando non è più parroco di Parre. Dal 2022 è a Chignolo d’isola. Anche da lì non smette di vivere intensamente il confronto con le persone: «La tristezza è vedere come la gente non è capace di ringraziare, ma è più incattivita di prima. Dal covid ne siamo usciti più concentrati sul proprio io.» Questo egoismo rancoroso è palese in chi oggi vuole negare la tragedia e le morti causate dalla pandemia: «Ho ascoltato, accolto e ho cercato di capire. Ma ho fatto fatica e faccio fatica.» Lo stesso sentimento lo prova nei confronti di chi durante e dopo la prima ondata si è comportato da sceriffo: «Mi dava fastidio la rigidità del sistema nel voler controllare. Si potevano fare le cose in maniera sicura ma con un po’ più di umanità. Allo stesso modo non riuscivo ed accettare e capire l’atteggiamento dei no-vax. Io non sono vaccinato, perché quando ho fatto gli esami del sangue avevo tantissimi anticorpi. Perciò ogni due giorni facevo il tampone. Questo non potevo dirlo perché sembravo un mostro.»

Simpatico e acuto. Libero e ricco di fede. Il coronavirus ci ha provato, l’ha bloccato per un paio di mesi, ma non è riuscito a fermare questo furetto che ogni tanto indossa il collarino ecclesiastico, ma che sempre distribuisce sorrisi, profondità e vitalità. Per questo, se si parla con un parrese arriverà di certo il momento in cui esclamerà con un velo di nostalgia: “Ah don Armando… fortunati quelli di Chignolo!”

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