CLUSONE – John che stava fuori dal supermercato a sistemare carrelli e aiutare la gente. E il Conad lo ha assunto

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Il posto è lo stesso, un supermercato di Clusone, ma la prospettiva è diversa, completamente diversa rispetto a qualche tempo fa. John qui stava seduto fuori, uno di quei visibili-invisibili che cercano qualche spicciolo in cambio di carrelli da riportare al loro posto e borse della spesa da portare a qualche cliente. John, educato, silenzioso, sorridente ha cambiato prospettiva. Il Conad alla fine lo ha assunto. Una storia che ha dell’incredibile per quanto è rara e ogni cosa rara merita di essere raccontata, soprattutto quando ha un lieto fine, come quello di John. 

Se la felicità avesse un volto, un sorriso, uno sguardo, un nome, avrebbe quello di John. Dev’essere così, ne sono certa. Capelli neri che cadono sugli occhi scuri. Scuri come la sua pelle. La storia di John non ha confini, non li ha nemmeno il suo cuore. Grande. Immenso. La Nigeria, la Libia, l’Italia. Lampedusa, Genova, Bergamo e poi Clusone. Un barcone, un viaggio lungo, la vita, la morte, la fede. Il buio che si fa luce. Niente vestiti, pochi spiccioli in tasca, ma tanta speranza. John non ha smesso nemmeno un istante di sorridere, quando l’ho incontrato tra le corsie del supermercato in cui lavora. Divisa rossa, sulle spalle la scritta ‘Conad’, indossa la mascherina, è vero, ma è il suo sguardo a disegnare il sorriso più bello. Lui che fino a pochi anni fa con lo stesso sorriso stava fuori dal supermercato, ad aiutare le persone a sistemare le borse della spesa o a mettere in ordine i carrelli.

L’inglese fluente, l’italiano che scricchiola un po’, ma le emozioni non hanno bisogno di traduzione, escono libere, ti avvolgono e ti travolgono. 34 anni, i 35 li compirà tra qualche mese, in Italia è arrivato nel 2011. Partito da lontano, da Imo State, in Nigeria. Riavvolgiamo il nastro, partiamo proprio da quel viaggio che ha cambiato per sempre la sua vita. “Non è stato facile”, inizia John. E come non credergli. “Ma Dio è sempre stato con me”. Un respiro profondo e poi il racconto, tutto d’un fiato, di quella notte. “Lavoravo in Libia, facevo il muratore, ero forte e veloce, lavoravo sempre, di giorno e anche di notte quando c’era il materiale, mi alzavo alle quattro del mattino. Quella sera ero tornato a casa tardi, mi sono fatto una doccia e poi sono andato a dormire. All’una i militari sono entrati in casa, mi hanno detto che dovevo andarmene da lì, non ho neanche avuto il tempo di rendermene conto. Loro gli stranieri non li volevano. Mi hanno accompagnato al porto, io e le altre persone avevamo le mitragliatrici puntate addosso… dovevamo salire sul barcone e non abbassavano le armi fino a che non eravamo al largo… temevano che saremmo tornati indietro. Oltre alla mia barca, quella notte ne sono partite almeno altre 25, una dietro l’altra. Sono salito, non avevo altra scelta, ma non avevo idea di dove sarei finito”. 

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