Alle sorgenti della coca

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Alle sorgenti della Coca

Co l o m b i a , B o l i v i a , Perù. Pezzi di mondo diversi. Pezzi di mondo dove la cocaina dà e ha dato da mangiare a tutti e continua a darlo. Giorgio Fornoni è andato nei tre Stati, si è infilato in mezzo a guerriglieri, carceri, montagne e foreste a cercare l’origine della coca, ecco il reportage straordinario di quello che ha raccolto.

Bolivia: rapporto dal carcere

«Ero incinta di otto mesi, mancava molto poco alla nascita del mio bambino. Quando mi hanno chiuso dentro ero disperata. Non capivo cosa stava succedendo… Ero su una corriera… c’era una borsa… hanno creduto all’autista e agli altri, invece che a me. Prima mi hanno messo in una cella, nel posto di controllo di Mamuro, poi a Chimorè, nel carcere di Chimorè… Quando mi hanno chiuso dentro continuavo a ripetere “Perché proprio io? Non vedete in che stato sono? Non sono di queste parti, vengo da Montero, non ho famiglia, non ho una madre né tanto meno l’aiuto di un padre. Io voglio uscire di qui”. Mi hanno detto che ero venuta a comprare. “Come a comprare?”, ho risposto. “Non ho neanche i soldi per mangiare…”. E così, dopo due giorni, hanno rilasciato gli altri passeggeri della corriera e mi hanno tenuto dentro. Io non avevo nemmeno i soldi per un avvocato e così mi hanno portato qui. E quando è nato il mio bambino, dopo un mese che stavo a Chimorè, non avevo neanche un pannolino per fasciarlo… sono venuta qui il 28 di ottobre, dopo un mese dal parto. Stavo ancora molto male, non avevo soldi, non avevo di che procurarmi da mangiare… perché tutto qui funziona solo col denaro, nessuno mi aiutava. Non so come, ma è passato. Ora non so cosa succederà, se riuscirò mai a tornare libera. Ma io voglio uscire di qui, perché non ho avuto l’affetto di una madre né di un padre e dunque voglio essere madre e padre per il mio bambino. Non mi aiuta nemmeno il padre del mio bambino. Questa è la mia storia, tutto quanto posso dire. Perché qui c’è soprattutto gente di campagna, madri che hanno 5, 6 figli, ci sono tanti bambini. E’ gente che non sa difendersi, sono ignoranti, molti non sanno leggere né scrivere e così non possono nemmeno difendersi. Gente di campagna, quando i veri trafficanti di droga, i veri colpevoli restano liberi. Quelli che ci ingannano e guadagnano sulla nostra pelle e se ne restano fuori. Qui c’è gente condannata per poche decine di dollari. Quelli che hanno i soldi vivono tranquilli, se sono presi escono dal carcere il giorno dopo. Con 1000 dollari escono quando vogliono e qui restano quelli in attesa di sentenza come me. Sono in carcere da più di otto mesi, nove dal 6 di agosto…» Questa è la tragica testimonianza di una giovane donna, Gabriela, rinchiusa nel carcere di San Sebastiàn di Cochabamba, una città delle Ande boliviane, in nome della legge 1008. La legge 1008 Distesa in una conca tra l’altopiano andino e la selva, Cochabamba è la città più moderna della Bolivia. Negli ultimi anni ha avuto uno sviluppo travolgente rispetto agli standard del paese e il fatto che sia il terminale naturale della produzio ne di coca non vi è certamente estraneo. I suoi 400 mila abitanti sono orgogliosi del grande Cristo della Concordia, che benedice dall’alto la città e le sue tante contraddizioni. Divisa tra voglia di sviluppo e stridenti contrasti sociali, la Bolivia vive in fondo il dramma di tutto il sud del mondo. Che deve fare i conti ormai non solo con i tanti problemi interni ma anche con le imposizioni del mercato globale. La legge 1008 anti-coca è stata approvata su diretta pressione degli Stati Uniti per ottenere l’ambita “certifcazione” annuale che apre i prestiti internazionali alla Bolivia. Ho seguito uno dei raid quotidiani che i “leopardos” dell’Umopar, le squadre speciali addestrate dall’ente antidroga americano, compiono nelle foreste dell’immenso Oriente boliviano, per colpire alla fonte la produzione di coca e cocaina. E che hanno portato nella regione del Chapare, al confine con l’Amazzonia, un clima da guerra civile. I “pisacoca”, i pestatori di coca, sono campesinos o ex minatori che guadagnano poche migliaia di lire a notte, lavorando una foglia di quella magica pianta che dona 4 raccolti l’anno, cancella da secoli la fame, il freddo, la fatica degli indios, rappresenta la nuova ricchezza e la maledizione di tutti i paesi andini. Poche ore di marcia e i “leopardos” scovano la loro preda. I cocaleros sono già fuggiti, ma hanno abbandonato il campo solo da pochi minuti. I soldati bruciano tutto. Pozze di macerazione come quelle incontrate nascono e muoiono ogni notte, a decine, in tutto l’immenso Eldorado verde della selva andina. Vi si ricava poco più di un chilo di “pasta basica” che verrà poi raffinato altrove. Valore locale: circa 300 euro, destinato poi a crescere di 200 volte sul mercato internazionale della cocaina. Si calcola che le piantagioni della Bolivia forniscano annualmente 150 mila tonnellate di foglie di coca, una buona fetta dell’intera produzione andina. Il settore dà lavoro più o meno diretto a non meno di 50 mila campesinos. Il grande imbroglio della legge 1008 nasce anche dalla obiettiva difficoltà a distinguere tra la coca prodotta per l’uso tradizionale, permessa entro certi limiti, e quella destinata alla produzione di droga per l’estero. Nonostante la guerra dichiarata ai cocaleros, le coltivazioni sono cresciute negli ultimi anni da 10 mila a 50 mila ettari. E nonostante le grandi quantità sequestrate, escono dal paese dalle 4 alle 600 tonnellate di cocaina l’anno. Con un giro di affari, per l’economia sommersa boliviana, stimato nell’ordine dei 2 miliardi di dollari. E’ da posti di controllo come la “Trinca” che nascono gran parte delle storie e dei drammi personali che si possono ascoltare nel carcere di San Sebastiàn. Un carcere modello? Sono entrato in questo carcere, che è suddiviso in due sezioni, maschile e femminile, accompagnato dai rispettivi cappellani. Don Giuseppe Ferrari, prete della diocesi di Bergamo; era rettore del seminario, però trovava il tempo anche per fare da cappellano nel carcere femminile. Questo è uno strano carcere senza sbarre, dove 400 donne e bambini vivono in un’atmosfera da mercato paesano. La legge boliviana prevede infatti che i detenuti già condannati possano ospitare dentro il carcere i propri familiari. Ma l’80% delle detenute è in attesa di giudizio, alcune da oltre un anno. Il sovraffollamento, la fatiscenza delle strutture, le condizioni di vita nel carcere femminile di San Sebastiàn hanno provocato proteste, scioperi della fame, donne incatenate alle inferriate. Alcune detenute sono arrivate addirittura a cucirsi le labbra. Chiedevano la celebrazione più rapida dei processi e la possibilità, pur prevista dalla legge ma raramente applicata, dell’extra-muro, il lavoro fuori dal carcere durante il giorno. «Dicono che questo è un carcere modello – dice Eleonora Cardoso – E’ una menzogna: questo è un deposito di persone. Ma dov’è la giustizia qui in Bolivia? Ogni giorno vediamo entrare e uscire i veri trafficanti. Arrivano con grosse macchine, concordano il minimo della pena prevista». «Qui ci trattano male – fa eco Rosana Claro – non abbiamo nemmeno dove riposare. La giustizia non va avanti, si dimenticano di noi. Le nostre carte sono sempre in ritardo, i processi sono fermi. Sono in carcere da due anni e mezzo, con una condanna di cinque anni e quattro mesi e nessuna possibilità di poter uscire a lavorare. Non c’è nessuno che mi aiuti e invece io devo guadagnarmi la vita per sostentare me stessa e i miei figli. Loro sono fuori di qui, abbandonati a se stessi, non posso tenerli con me per via del sovraffollamento del carcere. Siamo in tante e dobbiamo dividerci le già poche possibilità di lavoro che esistono… I veri colpevoli non sono qui, sono fuori, liberi di continuare ad arricchirsi e sfruttare la povera gente». Con la famiglia La sezione maschile di San Sebastiàn è dall’altra parte della piazza. Entro accompagnato dal cappellano, un missionario svizzero. A prima vista non si capisce chi siano i detenuti e chi gli ospiti. Poco più di 2000 metri quadrati per oltre 1000 persone. I detenuti ricevono un contributo statale di 15 centesimi di euro al giorno per la sussistenza e dunque devono arrangiarsi da soli. Negli ultimi anni, l’applicazione della legge 1008 ha fatto raddoppiare la popolazione carceraria boliviana. Quattro detenuti su 5 sono in attesa di giudizio. Anche qui, donne e bambini condividono con i reclusi le restrizioni di un carcere, e questa atmosfera surreale tempera in parte la severità della legge. Nel labirinto delle loro celle, a sorpresa, trovo anche un europeo, un ragazzo norvegese. «Sono qui da due anni – mi dice – condannato a 6 anni e 8 mesi. Senza droga, senza prove, solo per i miei precedenti. Tutto per via della legge 1008. Viviamo chiusi in uno spazio ristretto, letteralmente uno sopra l’altro, e così dobbiamo imparare a convivere, come in una grande famiglia. Quando si vive in una casa di 1700 metri quadri, 400 detenuti, 150 donne, 150 bambini, più la gente in visita, ci si possono fare anche dei nemici. E questi siamo costretti a incontrarli anche 10, 20 volte al giorno, per via dello spazio a disposizione. Io credo che sia un bene non dividere le famiglie, permettere che restino unite. C’è almeno questo vantaggio qui, che l’uomo soffre meno, ci si fa coraggio a vicenda, la famiglia resta unita”. C’è anche il detenuto ricco, Alberto Harteaga: «Ecco qua, sono stato condannato a 13 anni senza che mi abbiano trovato addosso un grammo di droga o di sostanza controllata. Per una delazione mi han chiuso qui, ci sono da 3 anni e me ne hanno dato 13, senza aver trovato un milligrammo di droga. Quella cella l’ho comprata con 3500 dollari, per avere almeno qualche comodità». Da chi si comprano le celle? «Si comprano da chi era qui prima di noi, passano da una mano all’altra quando uno se ne va. Anch’io la passerò a qualcun altro quando uscirò di qui, e così via». Un porto di mare Un grande condominio sovraffollato. Con i suoi drammi, le sue storie, il carcere di Cochabamba ha una capacità di resistere, organizzarsi e sperare che rappresenta la sua grande lezione. Anche alla “nostra” società, quella che comincia al di là delle sbarre alle fnestre, dove il cappellano svizzero ha costituito una struttura per accogliere i bimbi più piccoli dei carcerati e i preti bergamaschi hanno creato la “Ciudad del Nino”: oasi di speranza.

 

Colombia: droga e guerriglia

Con un territorio vasto quasi 4 volte l’Italia su cui abitano neanche 20 milioni di persone, la Colombia porta il nome del grande navigatore Cristoforo Colombo. Fin dall’inizio, qui come altrove, si trattò di conquista e conseguente sfruttamento dei nativi sia nelle encomiendas, enormi piantagioni in cui si privilegiava la coltivazione del caffé, sia nelle miniere, famose quelle dell’oro e degli smeraldi (questi ultimi insieme alla coca sono al primo posto nelle esportazioni). Genocidio di popoli e scomparsa di civiltà antiche e raffnate i cui reperti si possono ammirare al Museo de Oro di Bogotà. Mentre il miscuglio di popoli formatosi nella zona, compresi gli schiavi africani, ha creato un crogiuolo di razze e di culture che non ha eguali nel resto dell’America Latina. Ora il 57% della popolazione è meticcia (incrocio spagnolo-indio), 20% bianca, 14% mulatta (incrocio spagnolo-africano), 5% nera, 2% zambos e solo 2% nativa. Colombiano è anche Gabriel Garcia Marquez che ha messo su carta le emozioni e la poesia di un popolo. Terrore tra la gente La Colombia è una repubblica presidenziale democratica. Quando nel 1990 è stato eletto presidente Cesar Gaviria, esponente del Partito liberal, ha cercato di fermare l’ondata di terrorismo scatenata dai narcotraffcanti di Medellin. Questi infatti durante la presidenza del suo predecessore Virgilio Barco – che seguiva in pieno la politica antinarcos voluta dalla Dea (corpo speciale americano antidroga) che esigeva l’estradizione di chi risultava colpevole di aver esportato cocaina negli Stati Uniti – avevano seminato il terrore nel paese uccidendo militari, giudici, politici, giornalisti, semplici cittadini con auto-bombe che scoppiavano tra la folla, e persino Carlos Gavan, il superiore di Gaviria, durante la campagna presidenziale. Dopo questa uccisione, Gaviria non aveva potuto far altro che candidarsi lui stesso. Appena eletto, con una legge, cancellò l’estradizione e offrì grossi sconti di pena a chi si costituiva, sia che operasse tra i narcos che tra la guerriglia. Pablo Escobar, il re dei narcos, fu il primo a costituirsi (era ricercato da 5 anni) seguito da tanti altri. Ma non è cessata la coltivazione e la lavorazione della coca. Anzi: al posto dei capi fniti in prigione altri si stanno facendo avanti, al “cartello” di Medellin se n’è aggiunto un altro, quello di Cali; si moltiplicano, nelle vallate impervie dove le milizie governative non mettono piede, nuove coltivazione di coca sotto l’alta vigilanza della guerriglia. Padre Luigi Pedretti, monfortano, opera a Principe, un centro di coltivazione e di commercio del Vichada, in cui guerriglia e narcos la fanno da padroni. E “Principe”… era il suo nome Sette giorni da Bogotà per arrivare nel Vichada orientale, confine tra Colombia e Venezuela, foresta tropicale, habitat per la guerriglia e luogo ideale per la produzione e raffinazione della coca; sette giorni ed altrettanti notti a bordo di camion, di fuoristrada, di zatteroni e canoe… e km. e km. percorsi a piedi, attraversando città, savane, fumi e foreste – quanta acqua – è il periodo delle piogge. Arrivo a “Principe”‚ è domenica. La musica… i soldati guerriglieri, le prostitute, la coca, la pesatura della coca in ogni angolo, gli ubriachi, le “cerveza”… il sole, la pioggia, il rumore, gli odori… è una cosa impressionante. Mi ritrovo in un attimo sommerso da tutto questo. Come al tempo dei cercatori d’oro, “arrivano” da ogni dove; sono: ladri, delinquenti, ricercati, disertori, prostitute, disoccupati e… illusi, accecati dal miraggio di un facile ed immediato guadagno; questo è… Principe; questo è un centro, punto di incontro del gioco, della prostituzione, della guerriglia e della… coca. Ti fanno entrare in una sala da gioco se dai un sacchetto di coca… ti fanno entrare in una “encomienda” se tu paghi con la coca… ti fanno bere “cerveza e aguardente” se tu paghi in coca… tutto ruota attorno alla coca. Siamo vicini ai campi di coltivazione dove i coqueros raccolgono, raffnano e ottengono la polvere di coca. L’odore dell’ammoniaca ti entra nella testa e ti penetra nelle ossa. Una ragazza coltivatrice dice che tre tipi sono importanti: la Amara, la Dolce e la Peruana. La coca fa tutto e pensa cosa costa: 250 pesos un grammo, sarebbero 27-28 centesimi di euro… Cosa costerà nel nostro mondo di consumatori? Le bottiglie di “aguardente e cerveza”, si vuotano a fumi e si ammassano sui tavoli, le ragazze abbracciano smorfosamente questi lavoratori di coca: per una notte spesa con loro lasciano un bel sacchetto di coca, non ne conosco il peso ma il sacchetto è piuttosto grande, quanta fatica e quanta illusione. Un momento dopo vado a parlare con il capo dei guerriglieri del Vichada, non tanto grande ma bell’uomo nell’aspetto. Lo trovo anche molto intelligente. Jon Luis è il suo nome – gli chiedo il permesso di fotografare; lo ottengo fatta eccezione per i guerriglieri. Guerriglia e coca La guerriglia è in tutto lo Stato Colombiano, non solo qui nella zona amazzonica. L’unica opportunità per prendere il potere è quella di raccogliere intellettuali poiché‚ manca di guide culturali… e poi la guerriglia non è unica, sono tante branchie, almeno una ventina una delle quali è FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia), un’altra è ELN (Esercito Liberazione Nazionale); c’è una coordinazione guerrigliera che cerca di riunire tutti i movimenti di guerriglia ma trova difficoltà. Il leader delle guerriglie Colombiane è Navarro Wolf. Era presidente della M19, è riuscito a lasciare le armi e a riscattarsi nella vita civile diventando presidente della riforma costituente – ora è Movimento Democratico 19 de April (MD 19 de April). Qui nel Vichada, la guerriglia tiene a bada i coqueros e la vita pubblica, in cambio riceve danaro riciclato dal commercio della coca, il narcotraffico è dilagante. Piccoli aerei (avionetas) partono e arrivano in incognito anche qui a Principe. Andiamo a mangiare e bere insieme e di tanto in tanto fotografo la pesatura della coca, sono finito in mezzo alla guerriglia. La musica continua, è buio… i giovani, le ragazze, la “cerveza”… continuano a ballare… a lasciarsi andare… e cessando di piovere… la nebbia sale. Questi ragazzi e ragazze, il mattino dopo, alle 5, si svegliano dal loro sogno, lasciano il paese dell’illusione e ripartono su un barcone, accompagnati dal loro Coquero (Duegno) e per più di un mese lavoreranno nelle nascoste piantagioni e come paga prenderanno più coca che “plata”. La coca la scambieranno al prossimo rientro a Principe, dove scaricheranno… i sogni e i guadagni… e la vita continua… e la musica continua. I guerriglieri mi autorizzano ad entrare nei campi di coltivazione ad assistere alla lavorazione della coca; i coqueros e i raspadores raccolgono la foglia di coca dalle pianticelle (Raspada), per poi tritarle e porle in salatura con cemento e acido solforico; il tutto viene messo in benzina o gasolina per la fermentazione, ottenendo il siero, con pergamonato e ammoniaca si ottiene il Basuco che essicato dà la coca. I vari gradi di cristallizzazione, si ottengono con l’etere e l’acetone. L’uggioso agosto avvolge la Colombia in un manto di pioggia continua, il che rende ancora più triste l’atmosfera di questo paese ormai ostaggio dei narcotrafficanti. Appena fuori la mia stanzetta, una madre depone un bimbo, dentro ad un’amaca appesa, lo dondola, lo carezza… lo fa addormentare e lo sa… amare25

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